Immaginate un collezionista d’arte, antica o moderna fa lo stesso, che si tiene le opere chiuse in casa per godersele “in esclusiva”, o, peggio, le tiene in un magazzino. Non è difficile da immaginare perché queste persone esistono e forse le conosciamo pure. Per carità, è nel loro diritto, facciano quel che vogliono. Ma c’è qualcosa di innaturale in questo atteggiamento, perché l’arte vuole essere comunicativa, vuole essere guardata, vuole essere condivisa.
E infatti i grandi, veramente grandi collezionisti (che guarda caso sono stati anche mecenati e promotori) hanno esposto le loro collezioni. Se lasciamo stare gli esempi del passato, come i Medici, basta ricordare che il MoMA di New York fu fondato nel 1929 grazie alla generosità di Abby Aldrich Rockefeler, il Whitney nel 1931 da Gertrude Vanderbit Whitney e il Guggenheim nel 1937 da Solomon R. Guggenheim con il seguito che conosciamo. Ma anche nei nostri giorni sono esempi la collezione Sandretto e la Punta della Dogana, tra gli altri.
A questa categoria appartiene una figura nuova nel firmamento dell’arte contemporanea. Si chiama Hortensia Herrero, è di Valencia, imprenditrice che con il marito possiede la più grande catena di supermercati spagnoli e non solo, che tra l’altro sono noti per una gestione virtuosa anche nei confronti dei dipendenti. Ebbene, la signora Herrero colleziona arte contemporanea ai massimi livelli. E dopo un’attesa di diversi anni – per la totale ristrutturazione di un palazzo antico nel centro di Valencia, complicata dal rinvenimento d’importanti resti di epoca romana – apre le porte del Centro de Arte Hortensia Herrero.
Mai visto un luogo del genere così bello, così funzionale e godibile, che ti invita quasi a restarci e, senz’altro, come ho fatto, a ricominciare la visita. La collezione è del XXI secolo e ci sono dentro tutti i mostri sacri. La sala di Kiefer, per esempio, con tre immense tele che, per come sono disposte, ti trasportano aldilà di quelle visioni, con quei libri di piombo al centro del paesaggio. A fianco, Baselitz con una vera rarità: l’unica opera che conosco in cui i personaggi stanno in piedi e non rovesciati. E onestamente ci guadagnano. Poi il mio idolo, inarrivabile, Miquel Barcelò.
Un’altra sala è dedicata a un artista valenciano ben noto anche in Italia, Manolo Valdés. E a proposito, si può raccontare un esempio di come ragiona Hortensia Herrero. Commissionò a Valdés tre sculture monumentali, da piazza pubblica, e le espose nella Città della Scienza, sotto gli edifici di Calatrava. La gente doveva votare quale delle tre tenere. Si votò, ma la signora comprò anche le altre due e le regalò agli altri due capoluoghi della Comunità Autonoma: Castellón e Alicante, dove ora sono esposte.
Un artista a me particolarmente caro, con cui sono in contatto, è Mat Collishaw. Di lui ci sono due grandi opere. Un corridoio le cui pareti sono degli enormi schermi sui quali viene proiettata a ciclo continuo la festa valenciana per antonomasia: la nit del foc, la notte del fuoco; è la notte di san Giuseppe in cui insieme ai fuochi d’artificio vengono bruciate le fallas, monumentali sculture in cartapesta (lontanamente ricordano i carri di Viareggio) che hanno adornato le piazza cittadine durante la settimana. Lo spettatore si trova in mezzo a questa stretta galleria attorniato da fiamme. Meraviglioso. L’altra opera è ispirata al ritrovamento sotto l’edificio del circo romano. In una grande elisse corrono i cavalli, senza cavalieri, senza carri, in una corsa infinita.
E si può continuare, con il tunnel luminoso di Olafur Eliasson o l’altro tunnel in materiali vari (resina acrilica, polvere di marmo, acciaio inossidabile lucidato a specchio e luce ambrata, ndr) di Cristina Iglesias, o le due sale occupate da recenti lavori di David Hockney. E ancora Oppi, Anatsui, Kapoor, Cragg e tanti altri.
Agli italiani piace andare in Spagna e Valencia è una delle mete. Non omettano la vista alla Herrero’s Collection. Ne vale la pena.