La mostra Il resto di niente, che si è appena conclusa al museo Madre di Napoli, ha messo a fuoco il problema della vivibilità di un certo tipo di contesti, spazi architettonici progettati a partire dagli anni 60, con i migliori intenti creativi e seguendo i canoni di un nuovo funzionalismo post-razionalista, portato all’estremo.
L’esposizione ideata da Sabato di Sarno, direttore artistico della casa di moda Gucci e curata da Eva Fabbris e Giovanna Manzotti, ha ben evidenziato l’influenza che determinati contesti hanno sulla vita degli individui, stimolando trasformazioni dal punto di vista antropologico, cambiamenti radicali nella città di Napoli, come nell’omonimo libro di Enzo Striano, Il resto di niente, romanzo che presta il nome a questa collettiva.
I progetti su carta del professor Aldo Loris Rossi e Donatella Mazzoleni, tavole di notevole bellezza, parlano appunto di una rivoluzione ideale in quelle linee abbozzate che generano fughe e ambienti modulari circolari; ma, d’altro canto, va sottolineato come alla realizzazione effettiva dei progetti sia spesso corrisposto un’evidente manifestazione di degrado ambientale.
L’importanza del brutalismo architettonico sta nell’aver imposto nuovi canoni estetici modificando i concetti di bello/brutto, di possibile/impossibile e di vivibile/invivibile, mettendo in discussione i parametri che regolano la comune percezione.
Al contempo ha anche generato ambientazioni grige, contesti incapaci di trasmettere energia costruttiva positiva e, più in generale, ambienti strutturalmente predisposti all’abbandono del tempo, luoghi spesso marginali, che stimolano la formazione di organizzazioni di vita borderline, se non proprio di sub-culture estranee alla socialità convenzionale, quella maggiormente condivisa, che non è detto sia la più giusta, ma serve perché è una socialità fatta di regole che equilibrano la comunicazione tra diversità.
Sembra un discorso classista ed effettivamente si tocca questo indirizzo di pensiero, nel senso che si mette in risalto come contesti costruiti per giustificare la spesa di danaro, collegandola ad un progetto iniziale di “risanamento” delle periferie per inserirle in un più largo sviluppo del contesto urbano, e successivamente abbandonato, possa diventare al contrario un progetto di ghettizzazione, di chiusura verso l’esterno e quindi di divisione tra classi differenti.
In tal senso, la mostra collettiva con opere di artisti provenienti da diverse culture, ha avuto una funzione scientifica di ingrandimento del vissuto attuale di alcune realtà, vissuto viziato dai mutamenti che ha subito il comportamento umano, condizionato dall’ambiente che gli è stato costruito intorno, quel Materiale abitabile progettato da Rossi per un’ideale Città-Struttura.
Interessante la definizione stessa di Città-Struttura in cui si teorizza, tramite bozzetti e modelli in cemento, la possibilità/necessità di abitare spazi aperti e chiusi, che si intersecano generandosi nel percorso urbanistico, in un’ipotetica armonia totale tra ambiente esterno, architetture e umana necessità abitativa.
A Napoli il brutalismo interviene a colpi di cemento, si staglia in verticale e in orizzontale con curve e spigoli rendendo il paesaggio freddo e totalmente estraneo alla struttura, pesante e feroce, in totale contrasto con l‘armonia della natura e dei contesti preesistenti.
La Casa del Portuale (1968 – 1980) di Aldo Loris Rossi, in mostra riproposto con alcuni modelli in scala e riportato tramite il lavoro fotografico di Tobias Zielony, è una struttura che, seppur affascinante, oggi è totalmente grigia, apparentemente non curata e abbandonata alle intemperie. Un’architettura deteriorata, ma che tutto sommato si integra abbastanza bene con il degradato contesto interportuale, tra container, gru e camion, un ambiente in cui tutto sembra essere stato fatto di fretta, senza rispettare troppo i canoni estetici, ma solo le necessità commerciali.
Innegabile che questo innesto, che forse verso gli anni 80 fu avveniristico, rende oggi ancor più arido quel luogo industriale abbandonato dalla vita umana, plasmando il paesaggio in una dimensione post-nucleare.
Mentre nella zona dei Ponti Rossi, il complesso residenziale di Piazza Grande (1979 – 1989), risulta oggi essere un mostro di cemento. Anche in questo caso una struttura abbandonata a sé stessa in periferia, concretizzando il pericolo che nulla di buono possa avvenire in quel luogo, specialmente in un quartiere relegato a contesto abitativo “di terza classe” e che, successivamente all’edificazione di questa mastodontica struttura di cemento, non ha visto alcuna rinascita, solo gravi abusi edilizi e la costruzione di una strada sopraelevata per collegare il centro città con i quartieri della periferia est di Napoli.
Affascina il distopico nella realtà attuale, è stimolante, ma certo è che questi luoghi, inevitabilmente, con facilità mutano in ambientazioni aride, di solo orrore, se abbandonati dalle istituzioni, lasciati a seccare sotto le radiazioni solari tra rifiuti organici e industriali, ai margini delle periferie metropolitane.
Le Vele di Scampia costituiscono un esempio estremo di architettura brutalista perfettamente degradata, in una zona periferica della città di Napoli. Popolate da migliaia di persone, spesso emarginati, spesso persone prive di reddito, umani che non possono permettersi uno standard di vita minimamente decente, costretti a vivere in queste macro-architetture fatiscenti, prive di qualsiasi manutenzione.
Strutture mostruose e disarmoniche, belle forse solo nei progetti dell’architetto Francesco Di Salvo, con il loro carico di orrore mitizzato dal cinema che le ha fatte diventare un luogo di pellegrinaggio per il cinico turismo estremo. Pura distopia. Sono posti in cui ogni giorno si concretizza il dramma vero dell’esistenza.
Tornado alla mostra, appare più dolce l’idea del gonfiabile, come la struttura tubolare Elica di Franco Mazzucchelli, che occupa un’intera sala del museo, in cui si può intuire un tentativo di ingombro dello spazio, e contemporaneamente una possibile proposta di modello gonfiabile abitabile. Quest’ultima è una possibilità di vivibilità certamente non esclusa dai progettisti contemporanei, quella di realizzare moduli abitativi temporanei e gonfiabili, specialmente nell’ottica fantascientifica di conquistare nuovi spazi nell’Universo, in un futuro non troppo lontano e in cui tutto sembra poter avvenire una volta che è stato pensato.
Mentre nella prima idea di struttura che ha la funzione di ingombrare gli spazi vivibili, limitandone in questo modo la fruizione completa, il modulo gonfiabile assume uno scopo non costruttivo, ma riflessivo. Diventa un handicap dal punto di vista abitativo, un fastidioso limite alla fruibilità dell’ambiente vitale, con un inevitabile riflesso costrittivo nella vita dell’abitante. Uno stimolo a cercare altrove uno scampolo d’aria da occupare. La necessità di evadere in un altrove sconosciuto e possibilmente disabitato, sembra essere la condizione necessaria per la ricerca di nuove possibilità per la sopravvivenza dell’essere umano.
Consapevolmente o inconsapevolmente la si viva questa condizione di soggezione all’artificio architettonico, sembra che la realtà, stravolgendo ogni possibile previsione di auto-salvazione umana, ci suggerisca che si finisca per essere costretti a viverla, con tutto il carico di conseguenze che poi ne derivano. Ed è stesso l’uomo, che tramite quello che autodefinisce ingegno, e la convinzione di una innata capacità di autodeterminarsi, tenta maldestramente di manipolare la realtà, fallendo.
Stesso l’uomo costringe, per propria natura, larghe fette della propria specie a subire questo tipo di esistenza marginale e disagiata, in architetture belle solo nei disegni, dove sembrano perfette. Per amore della fantasia, in certi casi distopica, si rischia di annullare il verde ed aumentare il grigio, alimentando il ludico artificio umano e disincentivando la naturale espansione dell’inumano.