Wes Anderson è oggi uno dei registi contemporanei più personali e riconoscibili che abitano l’orizzonte cinematografico, con uno stile e una tessitura visiva che si intuisce con un colpo d’occhio, impreziosito da una summa di caratteri e visioni che ridefinisce il senso dell’immagine e della messa in scena, e si esprime attraverso scelte precise di inquadrature, composizioni, colori, anche modi di conversare.
Dopo Fantastic Mr. Fox, Wes Anderson ancora volta sceglie di tradurre le parole dell’autore britannico Roald Dahl, firmando quattro cortometraggi per Netflix, quattro opere brevi, ma sontuose ognuna a suo modo, che ci portano nel mondo di Dahl: Wes Anderson si attiene fedelmente ai racconti originali dello scrittore ma li adatta al suo stile inconfondibile, fatto di simmetrie, dialoghi sghembi e personaggi eccentrici. I corti in questione sono La meravigliosa storia di Henry Sugar, Il cigno, Il derattizzatore e Veleno, tutti interpretati dagli stessi attori: Ralph Fiennes, Dev Patel, Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley e Richard Ayoade.
La meravigliosa storia di Henry Sugar, il più lungo dei quattro a livello di minutaggio, racconta la storia di un giocatore d’azzardo annoiato e ricco, che trova un libro che gli insegna a vedere senza utilizzare gli occhi. Grazie a questo metodo misterioso diventa capace di imbrogliare al gioco d’azzardo e guadagnare ingenti somme, ma anche di trasformare la sua esistenza.
La storia è divisa in due: il racconto della storia del paziente (Ben Kingsley) dal punto di vista dei suoi medici (Dev Patel e Richard Ayoade) fino alla sua morte, seguito dalla storia di Henry Sugar (Benedict Cumberbatch) mentre cerca di adoperare la capacità che ha acquisito per vincere un’ingente somma di denaro.
Lo spettatore viene trasportato attraverso una moltitudine di ambientazioni, un tableau vivant di luoghi, storie, in cui il l’arte e il teatro incontrano il cinema, e chi guarda diventa parte della scena, anche perché coinvolto dall’inizio dagli attori stessi che abbattono la quarta parte introducendo il lettore/spettatore nell’universo dualistico di Anderson, che racconta una storia e allo stesso tempo la legge ad alta voce, come un reading filmico che gli attori sono chiamati a incarnare.
Questi corti sono puro teatro, pura scena in movimento, perché abitano il palcoscenico pur non ponendosi il limite della prospettiva, pur avendo la fluidità decisa della cinepresa che invoca lo sguardo intimo e seduttivo di Anderson che sceglie di parlare allo spettatore come se egli stesso fosse l’anello di congiunzione tra le storie e ne preservasse lo spessore più concreto. Pareti che si spostano, fondali che si abbassano, e gli attori che ci camminano intorno e che intercettano a colpi di dialoghi velocissimi lo sguardo dello spettatore che è coinvolto pienamente in una messa in scena totalmente manifesta: ciò che colpisce è proprio il modo unico in cui Anderson traduce, e forse tradisce, Dahl, trattando la sua prosa come un corridoio in cui correre e procedere, un fiume in piena di parole che raccontano e sono raccontate.
A far da filo conduttore tra questi corti, oltre ovviamente la penna che ne ha tracciato l’orizzonte, è la tenerezza e la crudeltà dell’essere umano e come queste storie vivano specchiandosi nelle connessioni con gli animali. Non a caso osservando le altre tre storie, ovvero Il cigno, Il derattizzatore e Veleno, Anderson scova nella presenza degli animali in scena, o anche nella loro assenza, la scusa per dimostrare la mostruosità e l’incanto dell’essere umano.
Anderson ha saputo rendere omaggio a Dahl con fedeltà e al tempo stesso con la sua interpretazione personale, la sua sensibilità e il suo gusto. Ha seguito idealmente le orme dello scrittore britannico cercando di entrare in sintonia con il suo mondo immaginario. Anderson condivide con Dahl la capacità di creare un mondo immaginario governato da personaggi fumettistici e infantili, che però esprimono caratteri universali.
L’infanzia è la dimensione privilegiata in cui si muove la fantasia di entrambi gli autori ma è anche il segno dell’eterna fanciullezza di personaggi che non riescono a crescere e ad adattarsi all’età adulta. A perimetrare questi personaggi è la sempiterna simmetria andersoniana, l’elemento su ci si fonda la grammatica del suo cinema, tanto idealizzata quanto riconoscibile.
Le sue opere sono caratterizzate da una cura maniacale per i dettagli visivi, che creano un mondo saturato di colori, oggetti, simboli e riferimenti. Un mondo che sembra sempre in mostra dove tutto è esposto e niente è nascosto.
Ma questa estetica non è solo una questione di stile o di gusto. È anche una questione di narrazione e di punto di vista. I personaggi di Anderson sono spesso degli eterni bambini, che vivono in un mondo immaginario e fantastico, dove si sentono i padroni assoluti. Sono loro che controllano la macchina da presa, che si muove avanti e indietro, a destra e a sinistra, seguendo i loro capricci e le loro avventure. Sono loro che costruiscono le loro storie, che si inventano le loro identità, che si rifugiano nelle loro fantasie.
Ma questo mondo non è sempre felice o innocente. A volte è anche oppressivo. A volte nasconde delle ferite o dei traumi. A volte è solo una maschera o una fuga dalla realtà. E allora il cinema di Anderson diventa anche una riflessione sulla maturità, sulla solitudine, sulla famiglia, sull’amore.
Ed è per questo che il testo letterario di Dahl, per quanto onnipresente e ipertrofico, viene tradito da Anderson che tenta di fecondarlo in un atto di interpretazione generativa e arbitraria che, anche se precisa, maniacale e creativa nella forma, risulterà sempre una traduzione incompleta delle sue parole, perché insostituibili. Com’è insostituibile il materiale letterario usato qui come un pre-testo, ovvero omaggiare lo scrittore, pur facendo l’unica cosa che resta chiara fin dal principio: renderci partecipi e coscienti del (nostro) potere immaginifico.