Inaugurata il 20 marzo, la Whitney Biennial 2024: Even Better Than the Real Thing, curata da Chrissie Iles e Meg Onli, presenta il lavoro multigenerazionale di 71 artisti e collettivi, che dovrebbero rappresentare l’arte americana. La Biennale del 2024 segna l’81a edizione della storica serie di mostre del Museo, l’evento più longevo sull’arte americana.
Even Better Then Real Thing: un impianto molto ideologico

Il sottotitolo è senz’altro accattivante, rimanda alle questioni più discusse del nostro presente, ma non alle più urgenti, è solo un pretesto per poi condurre un statement meramente ideologico. Così lo spettatore non è stimolato a livello sensoriale a percepire cosa è reale e cosa non lo è. E come stabilire ciò che è reale da ciò che non lo è, un dibattito che si perde nella notte dei tempi? Soprattutto con l’avvento dell’Intelligenza Artificiale che ribalta le nostre nozioni di reale e ci costringe ad un’attenta riflessione ed anche a prendere alcune misure per salvaguardare il senso di “Umano”.
Certo la Biennale dovrebbe essere una vetrina sul reale, invece i curatori ancora una volta ricalcano con più enfasi un pensiero unico selezionando artisti e tematiche sotto il filtro della politica di genere, dell’etnia, dell’identità, della differenza. Il criterio di scelta è essenzialmente politico e ideologico.
L’arte dovrebbe essere meglio del reale perché potrebbe trasportarci in un’altra dimensione, e non fare da specchio alla realtà o alla Matrix della realtà. Sembra che ciò che conti di più in assoluto, la problematica più urgente, sia combattere la retorica sull’“autenticità” che viene utilizzata per perpetuare la transfobia e limitare l’autonomia del corpo. In questa Biennale è come trovarsi all’interno di un “coro dissonante“, senza fare un’esperienza che possa ricondurre ad acquisire maggiore consapevolezza sul tema dell’umano e non umano, sull’uso dell’Intelligenza Artificiale, sul complesso rapporto della società con il corpo, sul senso dell’esistere e la precarietà del mondo. Ad essere messo in crisi è ancora una volta il pensiero occidentale, con la scusa di ascoltare gli emarginati, i musei pensano di recuperare il tempo perduto e lavarsi la coscienza!
Whitney Biennial: le opere
Ma poi cos’è la Biennale oggi? Una battaglia intellettuale, una moda? Un esercizio per addetti ai lavori, pura propaganda politica? Tutto può essere fuorché un‘autentica sintesi dell’arte americana del nostro tempo. Quando non ci sono nuove idee, quello che si può provare a proporre è uno spaccato limitato, una piccola biennale dal tono corretto ed educato.

La pittura è poco rappresentata, ciononostante ci sono alcune opere avvincenti, o per altro che sfidano la questione della forma e della materia, e sono quelle di Suzanne Jackson, strutture traslucide realizzate con gel solidificato e sospese nello spazio, senza tela o supporto visibile. Ogni opera è malleabile e si muove, cambiando forma nel tempo; mentre le grandi tele di Mary Lovelace O’Neal, mescolano un’astrazione gestuale con il figurativo.

Altri momenti della mostra trovano modi più estetici per inquadrare il mondo esterno: l’installazione di Lotus L. Kang è composta di fogli di pellicola fotosensibile che si appannano lentamente dal soffitto, reagendo alla luce ambientale, allo spazio e al tempo della mostra.

Mentre il muro fatiscente di resina arborea, mista a detriti vegetali e animali di Eddie Rodolfo Aparicio, assorbe la gravità e il sole.

Oltre alla scarsità della pittura, ci sono anche alcune grandi tematiche che restano decisamente fuori, e sono l’autobiografia e la soggettività. Il paesaggio ha preso il posto del ritratto, inteso come indagine sul sé. L’austerità organica e sostenibile ha sostituito le opere di grande bellezza, di grande sorpresa. Su tutto pulsa il primo chakra, per cui i toni dominanti sono quelli della terra, come l’installazione di Dala Nasser che drappeggia con lenzuola “tinte con argilla ricca di ferro proveniente dalle rive del fiume Abraham” un tempio in rovina improvvisato.

Tra gli artisti della Biennale Holly Herndon e Mat Dryhurst presentano il lavoro che fa parte di un progetto incentrato su personaggi creati dall’intelligenza artificiale, con la speranza che questa possa essere utilizzata in modi creativi, ma in realtà queste stampe svaniscono al confronto di ciò che vediamo sui social ogni giorno, ai modi di stravolgere la realtà.

Al terzo piano del Museo, l’artista Pippa Garner presenta un’installazione che fa riferimento all’ubiquità dei beni di consumo prodotti in serie e al modo in cui il marketing e il design di questi beni implicano qualità umane, come la personalità e il genere.

Tra i video più coinvolgenti spicca Once Again… (Statues Never Die) (2022) di Isaac Julien, un’installazione cinematografica su cinque schermi. L’artista presenta storie intrecciate che affrontano il dialogo tra il collezionista americano Albert C. Barnes e il filosofo rinascimentale di Harlem Alain Locke, nonché le apparizioni del poeta Langston. Un altro video da considerare è senz’altro quello di Seba Calfuqueo, un’esplorazione poetica delle cosmologie indigene.

L’installazione cinematografica di Diane Severin Nguyen In Her Time (Iris’s Version) (2023-24) raffigura un’attrice di nome Iris mentre prova per un ruolo da protagonista in un film di guerra storico sul massacro di Nanchino del 1937 da parte dell’esercito imperiale giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Guerra giapponese (1937-1945). L’ambiente immersivo, in cui i visitatori si sdraiano su un divano letto in una stanza circondata da nastri rosa e viola, esplora i modi in cui la storia circola nel presente.

Sulle terrazze del quinto e sesto piano del Museo troviamo il lavoro di Torkwase Dyson, descritto dall’artista come un “parco giochi monastico” ed è pensato per essere attivato dai visitatori, che sono invitati a toccare, sedersi e sperimentare l’opera in modo tattile. L’opera di Dyson è la prima opera d’arte presentata in concomitanza con la partnership decennale del Whitney Museum con Hyundai Motor.

La scultura all’aperto di Kiyan Williams rappresenta la facciata nord della Casa Bianca e si appoggia su un lato, sprofondando nel pavimento. L’opera è composta di terra, perché secondo l’artista la terra trasporta la storia, rappresenta simbolicamente la fragilità delle istituzioni e delle basi politiche degli Stati Uniti.

Nel complesso le opere sembrano vecchie… già viste, nessuna invenzione formale, solo cambiamenti di contesto. La diagnosi è ovvia: gli artisti hanno paura di creare qualcosa di nuovo, quella che viene chiamata “ la strategia della ragione cinica” pervade il panorama artistico. Il messaggio che ne esce è che gli artisti per avere successo devono adeguarsi agli stereotipi identitari.

È positivo che ora tutti possano essere ascoltati, ma sarebbe meglio se le voci dicessero qualcosa di nuovo! Più attenzione alle politiche identitarie nell’arte. Ok, abbiamo recepito il messaggio. Ma possiamo andare oltre, per favore?