William Burroughs, quel che “Queer” non ci ha detto del “gioco del Guglielmo Tell”

La vita di William Burroughs è stata avventurosa e poco convenzionale almeno quanto i suoi romanzi, e il film di Guadagnino che oggi sta spopolando ai botteghini, Queer, e ancor di più il libro omonimo da cui prende le mosse, ne è una controprova, affastellato com’è di invenzioni linguistiche e di esperienze-limite, tanto folli, vorticose e apparentemente inverosimili quanto, per la quasi totalità, autobiografiche. Il film, e prima di questo il libro, narra infatti le avventure di William Lee (interpretato da Daniel Craig), controfigura dell’autore, in una Mexico City allucinata, putrida e violenta, alla disperata ricerca di relazioni di sesso occasionale, alcol e droghe d’ogni genere, in compagnia di un giovane e sensuale turista americano incontrato per caso, Eugene Allerton (interpretato da Drew Starley), col quale l’uomo gira vorticosamente per le strade della città alla ricerca di Yage, l’ayahuasca, medicina sciamanica in grado di aprire le porte dello spirito, in mezzo a mille e mille giravolte e folli peripezie tra strade, bar e ogni sorta di lurido postaccio, eternamente fatto, ubriaco e fondamentalmente disperato.

Quello che il film non racconta è però il tragico episodio da cui il romanzo prese le mosse. Una trentina d’anni dopo averlo scritto, allorché Queer venne pubblicato per la prima volta, nel 1985, Burroughs scirsse a mo’ di cappello introduttivo: “Quando ho iniziato a scrivere questa prefazione a Queer, ero paralizzato da una forte riluttanza, un blocco dello scrittore che agiva come una camicia di forza. Guardavo il manoscritto di Queer e sentivo che, semplicemente, non riuscivo più a rileggerlo. Il mio passato era un fiume avvelenato da cui avevo avuto la fortuna di fuggire, e da cui mi sento tutt’ora spaventosamente minacciato, anni e anni dopo gli eventi che vi vengono narrati. Ogni parola e gesto mi fa venire i brividi. Il motivo di questa riluttanza mi diventa via via più chiaro mentre mi costringo a leggere: il libro prende le mosse da un evento che non viene mai menzionato, ma che, anzi, viene accuratamente eluso: la morte accidentale per arma da fuoco di mia moglie, Joan, nel settembre del 1951″.

Fuga in Messico dal Food Drug Department

Ma cos’era accaduto, dunque, a Mexico City in quel settembre del 1951? Per capirlo, dobbiamo prima fare un passo indietro. Burroughs era emigrato lì da poco con la seconda moglie, Joan Vollmer (dalla quale aveva da poco avuto anche un bambino), poetessa attivissima nei circoli Beat newyorchesi negli anni Quaranta, nonché, in precedenza, già fidanzata con Jack Kerouac, insieme al loro figlio piccolo e a un’altra figlia di lei, risalente a una precedente relazione. I due si erano trasferiti in Messico dagli Stati Uniti, per evitare a Burroughs di essere arrestato. Già in passato, cinque anni prima dei fatti che stiamo narrando, nel 1946, Burroughs si era trovato nei guai con la legge: in Lousiana, dove abitava con i genitori (proveniva una famiglia molto benestante di St.Louis, che si era arricchita con l’invenzione, da parte del nonno, di una delle prime macchine calcolatrici), era stato arrestato con l’accusa di aver cercato di procurarsi degli oppiacei con una ricetta medica falsa (in seguito scriverà ad Allen Ginsberg che gli “intrugli medicamentosi” che metteva insieme e distribuiva a destra e manca gli stavano procurando “rogne a non finire” con il Pure Food Drug Department, che gli voleva vietare persino “la vendita delle mie pastiglie al fluoro contro la carie”). In quel caso, non finì in galera per un pelo, perché il giudice decise di sospendergli la pena, a condizione che passasse l’estate a casa con i genitori.

Dopo l’estate, però, lui e Joan decidono di andarsene e di trasferirsi a New Waverly, nell’East Texas, in una casa infestata “da scorpioni giganti, tarantole, zecche, pulci penetranti e pantegane grosse come opossum”, dove Burroughs comperò due terreni: uno che coltivò a cotone, da far raccogliere a braccianti messicani “entrati illegalmente nel Paese con il nostro aiuto e la nostra connivenza, spesso costretti a lavorare col fucile puntato addosso”. Il secondo, non molto distante, dove piantò invece marijuana e papaveri da oppio, che puntava a smerciare attraverso amici e conoscenti, come Allen Ginsberg e Neal Cassady (protagonista del capolavoro di Jack Kerouac Sulla strada, ndr), che passavano spesso a trovarli nel corso del loro girovagare per gli Stati Uniti. Quando anche il Texas cominciò a stargli stretto perché aveva il Food Drug Department alle calcagna, si trasferì, con Joan e i bambini, a vivere in una fattoria vicino a New Orleans, dove aveva sempre in testa di coltivare marijuana e papaveri da oppio. Anche lì, però, si beccò l’ennesima denuncia, e fu trascinato in Tribunale.

Burroughs con Kerouac

Per non finire di nuovo in galera, decise allora di emigrare: “La causa che avevo a New Orleans per possesso di eroina e marijuana“, scriverà in seguito, “sembrava così poco promettente che decisi di non presentarmi affatto all’udienza in tribunale e affittai un appartamento in un tranquillo quartiere borghese di Città del Messico”, che era allora, scrisse, “un posto economico in cui vivere, con una grande colonia straniera, favolosi bordelli e ristoranti, combattimenti di galli e corride e ogni possibile diversivo”. “Sapevo che, in base alla prescrizione, non potevo tornare negli Stati Uniti per cinque anni”, scriverà ancora: “così feci domanda per avere la cittadinanza messicana e mi iscrissi a qualche corso di archeologia Maya e messicana al Mexico City College. Pensavo di dedicarmi all’agricoltura, o magari aprire un bar al confine con l’America“. Lì, dirà anni dopo, lui e Joan speravano di riuscire finalmente a vivere in pace, facendosi gli affari loro “senza il timore di essere molestati in continuazione da qualche sbirro arrogante”.

Il nostro gioco del Gugliemo Tell

Ed è proprio qua, a Mexico City (dov’è ambientato anche il film di Guadagnino), che ritroviamo Burroughs e Joan il pomeriggio di martedì 6 settembre 1951. Quel giorno, Burroughs aveva deciso di mettere in vendita la sua pistola, una 380 automatica: dopo essersi scolato già molti bicchieri, e aver trotterellato assieme a Joan fino a un appartamento abitato da un tale, un irlandese del Minnesota chiamato John Healey, che a quel tempo gestiva un bar, il Bounty, di cui Burroughs era cliente abituale, entrambi si misero a proprio agio, ingollarono qualche altro bicchiere e si accinsero ad aspettare il possibile acquirente, un tizio che avrebbe dovuto raggiungerli a casa di Healey proprio per acquistare la 380 automatica di William.

Nella stanza, oltre a Burroughs e la moglie, c’erano in quel momento altre due persone, così Healey andò giù a servire al bar e lasciò i suoi ospiti da soli. È a quel punto che avvenne il fattaccio: “Joan era seduta su una sedia, io su un’altra, dall’altra parte della stanza, a circa due metri di distanza”, avrebbe raccontato in seguito Burroughs. “C’erano un tavolo e un divano. La pistola era in una valigia e la tirai fuori, era carica, e stavo prendendo la mira. Dissi a Joan: ‘Credo che sia quasi ora per la nostra scena del Guglielmo Tell’. Lei prese un bicchiere di cognac e se lo mise in equilibrio sulla testa”. Qua, le versioni divergono. In seguito, raccontando il fatto alla polizia, Burroughs cambierà versione: “Non le ho messo alcun bicchiere sulla testa”, dirà. “Se l’ha fatto lei, è stato uno scherzo. Di certo io non avevo intenzione di spararle“, dirà, riconoscendo però che “avevamo bevuto un po’… tutto era molto confuso”. Ma di sicuro, assicurerà, “non c’era stata alcuna discussione o litigio prima dell’incidente… La festa era tranquilla”.

“Non so com’era iniziato il discorso”, avrebbe riferito in seguito Ed Woods, uno dei due altri uomini presenti, “quel che ricordo è che Burroughs disse: ‘Joanie, lasciami mostrare ai ragazzi che tiratore in gamba è il vecchio Bill’. Così lei si pose in equilibrio il bicchiere sulla testa, si voltò e disse con una risatina: ‘Non posso guardare, sai che non posso sopportare la vista del sangue’. Per un attimo, mi passò per la mente che potesse effettivamente premere il grilletto, e pensai: ‘Dio mio, se colpisce il bicchiere voleranno milioni di schegge tutt’intorno, farà un buco nel muro, e chissà come potremo giustificare il fatto a Juanita’ (la padrona di casa, ndr). Mi pareva ridicolo. Così pensai di tirargli via la pistola, ma poi mi dissi: ‘Meglio di no, perché se fallisco e la colpisce…’.

“Quando disse che intendeva recitare la parte di Guglielmo Tell”, disse in seguito l’altro dei due testimoni alla scena, “nessuno replicò: ‘Guarda, Bill, che non è affatto una buona idea’. Non trovavamo la cosa particolarmente allarmante. Sì, avevamo bevuto, e Bill era noto per essere un buon tiratore. La ragione per cui Joan non aveva nulla in contrario era proprio da attribuirsi al fatto che si fidava della sua abilità, o a qualcosa del genere”. “Perché lo feci”, dirà in seguito Burroughs al processo, “non lo so, mi ha preso qualcosa. Fu un gesto del tutto sconsiderato. Supponendo che fossi riuscito a centrare il bicchiere sopra la sua testa, c’era il pericolo di proiettare in giro schegge di vetro che avrebbero potuto colpire altri lì intorno. Sparai un solo colpo, mirando al bicchiere”.

“Lei era distante un due metri”, dirà ancora un Ed Woods. “Quindi lo sparo, quello mi impressionò: il colpo ci aveva temporaneamente assordati. La cosa successiva che ricordo è il bicchiere a terra, notai che era intatto e rotolava via in cerchi concentrici. Poi guardai Joan, la sua testa era reclinata da un lato. Ma no, pensai, sta fingendo. Poi udii A. (l’altro testimone, ndr) che diceva: ‘Bill, credo che tu l’abbia colpita’. Allora lui gridò: ‘No!’, e si mosse verso di lei, e poi vidi il foro nella sua tempia. Burroughs continuava a gridare: ‘Joan, Joan, Joan!’. Era fuori di sé, sotto shock”. In seguito, Burroughs ricorderà i minuti immediatamente successivi a quello che continuerà sempre a chiamare “l’incidente” con un tono folle e allucinato: ricorderà “l’opprimente sensazione di sventura e perdita”, e, nei mesi successivi, “camminando per strada mi sono improvvisamente ritrovato con le lacrime che mi rigavano il viso. “Cosa c’è che non va in me?”, mi chiedevo”.

Di nuovo in prigione

Il giorno dopo, 7 settembre – esattamente 73 anni fa –, un trafiletto sul giornale riportava la notizia com il titolo: “Versioni contrastanti sull’omicidio della signora Burroughs in Messico”. “Mexico City, 7 settembre. William Seward Burroughs, 37 anni, ha prima ammesso, poi negato, oggi, di aver giocato a Guglielmo Tell quando la sua pistola ha ucciso la sua bella e giovane moglie durante una festa a base di alcol la scorsa notte. La polizia ha detto che Burroughs, nipote dell’inventore della calcolatrice, ha detto loro per la prima volta che, volendo mostrare la sua abilità di tiro, le ha messo un bicchiere di gin sulla testa e ha sparato, ma era così ubriaco che ha mancato il bersaglio e le ha sparato in fronte. Dopo aver parlato con un avvocato, la polizia ha detto che Burroughs, che è un ricco piantatore di cotone a Pharr, Texas, ha cambiato la sua versione e ha insistito sul fatto che sua moglie è stata colpita accidentalmente quando ha lasciato cadere la sua pistola calibro 38 appena acquistata. La signora Burroughs, 27 anni, ex Joan Vollmer, è morta al Red Cross Hospital. La sparatoria è avvenuta durante una festa nell’appartamento di John Healy di Minneapolis. Burroughs ha detto che erano presenti altri due turisti americani che conosceva di sfuggita. Burroughs, i capelli spettinati e i vestiti sgualciti, è stato portato in prigione. Domani mattina è prevista un’udienza per l’accusa di omicidio. Non c’è stata nessuna discussione, ha detto. “È stato puramente accidentale”. Burroughs e sua moglie erano qui da circa due anni”. Il giornale ci informa anche che Joan “aveva frequentato la scuola di giornalismo alla Columbia University prima del suo matrimonio con Burroughs” e che lui “è laureato alla Harvard University” e che “ha lavorato per due settimane nel 1942 come reporter per il St. Louis Post Dispatch”.

Così finì, miseramente, l’avventura matrimoniale di William Burroughs, ed ebbe invece ufficialmente inizio quella di scrittore maledetto, il “fuorilegge della letteratura”. “Sono costretto alla spaventosa conclusione che non sarei mai diventato uno scrittore se non fosse stato per la morte di Joan”, raccontò Burroughs in seguito, “e alla consapevolezza di quanto questo evento abbia motivato e formulato la mia scrittura. Vivo con la costante minaccia di possessione e un bisogno costante di sfuggire alla possessione, al Controllo. Così la morte di Joan mi ha messo in contatto con l’invasore, lo Spirito Cattivo, che mi ha tenuto in pugno in una lotta durata tutta la vita, nella quale non ho avuto altra scelta se non quella di scrivere per poterne uscire“.

Quattro anni dopo, Allen Ginsberg dedicò a Joan questa poesia: “Una notte sbronzi a casa mia con un / ragazzo, a San Francisco: mi addormentai: / oscurità / Fui di nuovo lì, a Città del Messico / e vidi Joan Burroughs piegata / in avanti su una sedia da giardino, con le braccia / sulle ginocchia. / Mi studiò / con gli occhi limpidi e un sorriso triste, il suo viso / tornò a splendere di una bellezza sopraffina / la tequila e il sale la rendevano un po’ strana / prima di quel proiettile nella sua fronte. / Parlammo della vita da quel momento in poi. / Allora, che diavolo combina adesso Burroughs? / Bill qua sulla terra, è in Nord Africa. / Oh, e Kerouac? Jack salta ancora / col suo solito estro beat che aveva prima, /e i suoi quaderni pieni zeppi di Buddha. / E Huncke, è ancora dentro? No, / l’ultima volta l’ho beccato a Times Square. / E come se la passa Kenney? Sposato, sbronzo / e dorato in Oriente. E tu? Nuovi /amori in Occidente. / Allora seppi / che era un sogno: e le domandai / Joan, che tipo di consapevolezza hanno / i morti? Puoi ancora amare / i tuoi amici mortali? / Cosa ricordi di noi? / Lei / svanì di fronte a me – L’istante successivo / vidi la sua lapide rigata di pioggia / erigere un epitaffio illeggibile / sotto il ramo contorto di un piccolo / albero nell’erba selvatica / di un giardino desolato in Messico”.

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