Un affascinante insieme di traiettorie. Incroci di culture e di storie spesso travagliate, che uniscono due mondi, l’Oriente e l’Occidente. Siamo in un territorio che fa parte delle narrazioni su quella che fu la Via della seta. Porcellane cinesi, tè, spezie, tappeti e metalli anche preziosi, e naturalmente le sete. I trasporti erano lenti e difficili. Lunghe carovane attraversavano tratte diverse, rotte commerciali importanti da un punto di vista economico. Ma questo antesignano modello di globalizzazione, si portava dietro (ieri come oggi) l’insieme di aspetti e questioni attinenti alla cultura.
Un contesto costituito da molte etnie, religioni, esperienze e tradizioni cui l’Occidente ha sempre guardato con una certa fascinazione, non tralasciando le ragioni più opportunistiche. Lo sguardo verso le alterità (a avviso di chi scrive) è forse quello più interessante, poiché tenta la conoscenza e la comprensione degli “altri”, gettando ponti di attraversamento e di dialogo. E è per queste ragioni che il progetto di Marina Nissim (imprenditrice e collezionista) inaugurato nel 2020, merita un’attenzione speciale. Poiché lo scopo di Fondazione Elpis non è solo quella di restituire all’arte un ruolo centrale nel contesto culturale. Ma si fa interprete anche una prospettiva meno occidentalocentrica, che migra lo sguardo verso paesaggi meno esplorati e geografie artistiche altre.
In YOU ARE HERE. Central Asia inaugurato a ottobre, l’atmosfera che si respira è pressappoco quella dei trasferimenti culturali, dei passaggi e degli attraversamenti. In particolare, intorno alle regioni del Kirghizistan, Kazakistan, Tagikistan e Uzbekistan, da cui provengono gli artisti e le artiste. Un dialogo tra generazioni e linguaggi costruito intorno al concetto della presenza in un luogo. Tecnicamente “sono qui” indica un punto rosso su una mappa, da cui è possibile prendere altre traiettorie. Tuttavia, in una visione più ampia rappresenta la consapevolezza che si ha di sé, delle proprie origini e della propria identità.
La mostra curata da Dilda Ramazan e Aida Sulova (originarie dei luoghi ma di base all’estero) racconta il presente senza tralasciare le origini e le nuove influenze. Simbologie totemiche per Rashid Nurekeyev (1964, Kazakistan) con la scultura con la testa di volpe, esito della creazione di punti di rilevamento o segnali geodetici, collocati in vari luoghi, e che l’artista posiziona per la prima volta in Italia. Sono 31 invece le lune-ferri di cavallo tipici della tradizione nomade kazaka nel pannello di Said Atabekov (1965, Uzbekistan), che trovano corrispondenze con la mezzaluna mussulmana e la falce sovietica. È il fiume Bishkek il soggetto delle immagini fotografiche della performance di Ulan Djaparov (1960, Kirghizistan), esplicito il riferimento ai rituali di purificazione, tuttavia, la presenza di rifiuti all’interno denuncia la sovrapproduzione contemporanea.
Nelle pennellate di Temur Shardemotev (1990, Karakalpakstan, Uzbekistan), ritroviamo la convivenza tra specie diverse, mentre la pittura di Nurbol Nurakhamet (1986, Kazakistan) diventa raffigurazione di una storia che evolve tra cancellazioni e iscrizioni. Il primo si fa portavoce in questa sede, della scena locale di artisti noto come “fenomeno Nukus” (dal nome della località in cui si trovano). Il secondo dipinge per la prima volta su lastre di ottone, su cui le tracce della pittura possono essere rimosse completamente. Si interrogano sul processo di dimenticanza e recupero delle informazioni tra generazioni, anche Vyacheslav Akhunov (1948, Kirghizistan) e Ester Sheynfeld (2000, Uzbekistan), che lavorano insieme creando due opere distinte. La prima cancellando parti di un testo e di immagini, la seconda recuperandone la polvere prodotta.
Dalla superficie della tela a quella della grande scultura di Zhanel Shakhan (1992, Kazakistan) a forma di mondo con grandi mani che lo abbracciano. Una rappresentazione della donna, che nonostante il percorso di emancipazione all’interno delle società, si sente ancora costretta in ruoli definiti. La fisicità e le manifestazioni tattili di Shakhan diventano “liquide” nei linguaggi tecnologici della rete. I trasferimenti fisici da un luogo all’altro, così come la condizione sociale del migrante, è mediata dagli strumenti elettronici, in cui i social permettono di restare in contatto. Per Medina Bazargali (2001, Kazakistan è una sorta di telefono amico in lingue diverse, nell’installazione talismano di Qizlar (Uzbekistan), che si identifica come una comunità fisica e tecnologica, audio e video sono presi da Telegram. Gli schizzi in movimento all’interno di una piccola cornice raffigurano gli incontri di Marat Raymkulov (1984, Kirghizistan), mentre nella pellicola cinematografica di Saodat Ismailova (1981, Uzbekistan), i soggetti sono le eroine femminili del cinema uzbeko dal periodo sovietico all’indipendenza. Nel video di Bakhyt Bubikanova (1985-2023, Kazakistan) una figura androgina prende forma con le sue sembianze, ricordano l’iconografia di San Sebastiano, che si conclude in un gesto domestico come quello di stendere i panni.
Ancora dalla dimensione domestica attinge Azadbek Bekchanov (1996, Uzbekistan) nel video che ricostruisce un’immaginaria patria. Ma la patria può materializzarsi in un’idea di casa o trasferirsi concettualmente in un oggetto. Nel video-performance di Chyngyz Aidarov (1984, Kirghizistan) sono i materassi usati negli appartamenti “di gomma” a Mosca. Il video mostra posti letto che venivano aperti alla notte e richiusi al mattino, in un meccanismo alienante, metafora della provvisorietà di una condizione. Nell’installazione di Munara Abdukakharova (1960, Kirghizistan), invece, il toshok, il classico materasso kirghiso, simboleggia l’idea di casa quando si è lontani.
Aika Akhmentova (1995, Kazakistan) ci riporta immediatamente sulla soglia di un ingresso (che coincide con quello della fondazione), con il pod’ezd sovietico-tappeto, insieme alle cassette della posta e agli interventi a parete blu e verdi, colori che ricordano gli apparecchi militari e civili sovietici. Nell’opera di Alexey Rumyantsev (1975, Tagikistan) è sufficiente un tessuto realizzato con una tecnica antichissima l’Ikat, infilato tra i mattoni di un muro, a farsi da portavoce e collante tra le storie e i luoghi dei lavoratori dei cantieri. Storie che si intrecciano, attraverso la tecnica di cannicci, nel pannello di Kasiet Jolchu (2000, Kirghizistan), prodotto con i chij-steli d’erba legati con la lana, o nelle sovrapposizioni di tessuti colorati, che formano una striscia che corre lungo tutti i piani della fondazione, nell’intervento di Gulnur Mukazhanova (1984, Kazakistan). Mentre è ancora una volta la presenza del tessuto Anna Ivanova (1971, Uzbekistan), a indagare i cambiamenti della società uzbeka, o a ricordare le tradizioni familiari con la qalta, in kazako tasca-borsa cucite a mano dalla nonna dell’artista Adilbek, nelle fotografie esposte.
Jazgul Madazimova, (1990, Kirghizistan) e Daria Kim (1988, Uzbekistan) attingono dalle proprie esperienze. Dalla performance della prima che ricorda gli spostamenti della madre in Russia per lavoro, ma affronta anche aspetti centrali della vita di una donna all’interno di un contesto di indipendenza che il paese ha raggiunto. A quelle prelevate dai racconti d’infanzia su creature misteriose che abitavano la casa di Kim, modellati con la plastilina e chiusi in barattoli di vetro. Più concrete le creature biomorfe di Sonata Raiymkulova (1996, Kirghizistan), che si interroga sulla sua esistenza. Che si tratti di sculture piuttosto che disegni, sembrano avanzare alla ricerca di uno spazio da abitare.
Un percorso, quello della mostra, che tra una stratificazione di storie e livelli reali dello spazio, si fa labirintico. Due dei lavori più evocativi (a parere di chi scrive), di Emil Tilekov (1962, Kyrgyzstan) e Yerbossyn Meldibekov (1964, Kazakistan), si formalizzano in mappe reali. Per il primo il feltro diventa una topografia su cui tracciare l’itinerario dei labirinti, raffigurazione del ciclo della vita. Ciclo che talvolta trova punti in comune come quella di altri popoli. Come tra quello kirghiso e gli Scioscioni, il popolo serpente, nativi americani originari dello stato del Wyoming, come emerge dall’incontro dell’artista durante un viaggio. Le bacinelle di alluminio di Meldibekov presentano delle scanalature che ricordano le vette dell’Asia centrale. Sopra sono indicati tutti i nomi cambiati nel corso della storia politica e sociale, mentre il titolo NKVD, evoca un periodo cupo sotto il controllo russo.
Concludiamo il nostro racconto con le immagini di queste mappe, e immediatamente ci sentiamo come quel punto rosso YOU ARE HERE. Una minuscola presenza in uno spazio (architettonico) suggestivo e accogliente. Ecco siamo qui. Eppure, siamo stati trascinati in altri luoghi. Abbiamo attraversato altre geografie, ascoltato e guardato storie, attraverso il linguaggio della contemporaneità. E se ricominciassimo dall’inizio?