“Kafka of Suburbia”, nuova produzione di Minima Theatralia debutta a Milano al Teatro Elfo Puccini. In questa intervista la regista Marta Marangoni ci racconta i dettagli.
IL DEBUTTO AL TEATRO ELFO PUCCINI
Martedì 4 aprile il palco della Sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini di Milano ospita lo spettacolo Kafka of Suburbia, progetto biennale che corona il laboratorio della compagnia Minima Theatralia. L’associazione nasce nel 2012 per volere della regista Marta Marangoni e il musicista Fabio Wolf, coppia nel lavoro e nella vita privata che crede fermamente nel potere catartico e salvifico del teatro, soprattutto se esercitato in contesti poco valorizzati a livello sociale e culturale.
RISVOLTO SOCIALE DEL TEATRO
Come un quadro puntinista, dove i colori sono sapientemente accostati per creare effetti cromatici senza pari, le diverse comunità coinvolte presentano tratti unici in cui ogni componente rivela potenzialità inattese se stimolate.
Il risvolto sociale del teatro, guida la compagnia milanese alla ricerca di un linguaggio comune che possa ripristinare l’essenza dell’atto creativo per una condivisione lontana da qualsivoglia rigidità borghese.
Dall’esperienza pluriennale e internazionale della regista Marta Marangoni, sostenuta dalla drammaturga Francesca Sangalli, nascono proposte che non solo guardano alla recitazione come possibilità di rigenerazione urbana e comunitaria, ma integrano sostenibilità e inclusività nelle pratiche quotidiane, dalla produzione di costumi teatrali ecologici della costumeria sociale “Sunomi” all’Associazione Amleta per la mappatura della disuguaglianza di genere nel mondo dello spettacolo.
L’INTERVISTA A MARTA MARANGONI
Dal confronto con Marta Marangoni emerge una dedizione tenace, grazie alla quale convivono gli ostacoli dell’imprevisto e la certezza del riscatto: un microcosmo di possibilità dove genitori e figli sono personaggi di un’unica commedia e dove la singolarità trova la piú alta forma di espressione per concedere della fantasia a un mondo ormai disincantato.
Attrice, cantante, drammaturga. Come si è sviluppato nel tempo il suo rapporto con il teatro?
Tutto è incominciato classicamente con una bambina tutta pepe che amava travestirsi e truccarsi, per stupire con mirabolanti esibizioni natalizie tutto il parentado. La passione è maturata al liceo, dove l’uditorio era ben più ricco e soprattutto oltre al virtuosismo era importante e coraggioso cimentarsi con la satira per comunicare la propria visione del mondo. Le scoperte in questo campo sono state tutte magnifiche da Morte accidentale di un anarchico fino al Vajont per sconfinare con l’università nell’amore per il comico e poi per il circo: ero iscritta a Lingue e Letterature straniere alla Statale. In viaggio Erasmus in Germania, a Dresda e poi Berlino, ho sperimentato il teatro di varietà e scritto la mia tesi di ricerca alla Humboldt Universitaet sul Cabaret berlinese “Distel”, storico teatro della DDR.
Altre avventure mi hanno portato in Spagna, dove ho studiato e lavorato con Estudis clown e poi ricondotto in Germania con importanti produzioni con la regista e cantante lirica Annette Jahns, collaboratrice di Pina Bausch, e così è nato l’amore per il teatro musicale che tuttora mi pervade.
Tornata a Milano mi sono laureata e ho cominciato a lavorare come traduttrice, era il 2001 quando ha aperto nel mio quartiere il Teatro della Cooperativa di Renato Sarti. È l’anno dello spettacolo Nome di battaglia Lia che sarà l’inizio della mia strada come attrice, spettacolo premiato con la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica Italiana e rappresentato nel 2010 nella sala della Lupa del Parlamento, va ancora in scena oggi dopo oltre vent’anni di repliche.
Ma avevo la necessità di trovare una vera urgenza politica e sociale nel “fare teatro”, e così mi sono iscritta al “Corso di Drammaturgia Performativa e Comunitaria” del CRT (Centro Ricerca Teatrale), dove ho avuto la fortuna di consultare gli storici archivi del Teatro dell’Arte, calpestare le assi di un palcoscenico dove erano stati grandi maestri del teatro europeo come Grotowski e Kantor, seguire le sperimentazioni di Emma Dante, Societas Raffaello Sanzio, Babilonia Teatri e respirare così aria di ricerca e innovazione. E questo mi ha portato a fondare nel 2012 la compagnia Minima Theatralia con lo scopo di realizzare progetti di Social Community Theater. Abbiamo anche realizzato l’adattamento teatrale del famoso romanzo “Le otto montagne” di Paolo Cognetti. Ed eccoci quest’anno a festeggiare i primi dieci anni sul prestigioso palco della Sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini!
La compagnia ha al suo centro i Duperdu, il nostro duo teatral-musicale che è nato perché cercavo un pianista per uno spettacolo ispirato all’opera di Brecht e… ho trovato un marito! Fabio Wolf è un singolare pianista cantante intrattenitore e compositore delle cui musiche mi sono subito innamorata, completandole con parole e azioni sceniche. Da allora in poi la nostra fusione è stata totale, tanto da non ricordare più chi ha scritto cosa.
“Duperdu fa quatter” e in effetti noialtri teatranti indefessi ci siamo moltiplicati e abbiamo due figlioli, Plinio e Dalia, che coinvolgiamo nelle nostre peregrinazioni teatral-musicali, come depositari del nostro futuro umano e artistico. Ma non ci siamo fermati e abbiamo osato sfidare anche le regole della matematica e moltiplicare, moltiplicare, moltiplicare.
Perché Duperdu non fa più solo quatter, ma fa… ottanta! Oltre ottanta fra attori, attrici, costumiste, scenografe, musicisti, tecnici, organizzatrici, insomma persone di ogni età, abilità, disabilità, provenienza, possibilità, sensibilità, fotocromaticità… sul grande palco del Teatro Elfo Puccini, dove ci trovate il prossimo 4 aprile con il nostro “Kafka of Suburbia”.
Con l’associazione Minima Theatralia il teatro diventa strumento sociale e politico oltre che catalizzatore di pensieri e idee comuni e molteplici; qual è lo stimolo propulsore di questo progetto?
Amiamo perderci nei meandri della nostra ricerca che mai volge al fine e che sempre ci stupisce e ci incanta. Ciò mi ha portato ad approfondire la teoria del cosiddetto “Applied Theater”, ovvero il Teatro applicato al benessere sociale, come diritto delle persone all’espressione, qualunque siano le loro abilità, provenienze, età, possibilità insieme ad artisti professionisti dello spettacolo e dell’arte, il teatro come condivisione di importanti valori, che utilizza il laboratorio come strumento di rigenerazione urbana.
Questa urgenza mi ha portato a immergermi nei territori con la foga dell’esploratrice, a caccia di storie, conflitti, sofferenze e gioie da condividere e raccontare.
Lo stimolo propulsore per un teatro inclusivo che scopra i risvolti più fragili, sconfiggendo lo snobismo di una società teatrale borghese autoreferenziale ed escludente. E ho scoperto la potenzialità della musica nel rendere universali i sogni.
Minima Theatralia è nata a Niguarda, il mio quartiere, per poi estendere il lavoro a tutto il nord ovest milanese, in quelle periferie dell’anima, con la convinzione che “il teatro sia uno strumento di incontro realmente rivoluzionario per le nostre vite e per le nostre solitudini”.
Attraverso la creazione di performances immersive people and site-specific, che promuovono le relazioni e le risorse creative di un territorio, abbiamo dato vita ad una micro-comunità che insieme dimostrano che la convivenza fra le diversità è possibile e anche fruttuosa.Minima Theatralia nel 2015 vince il Premio Pancirolli per il Teatro Sociale e replica lo spettacolo vincitore in teatri e festival italiani e presso KIETZKALENDER di Berlino. Esporta il format del laboratorio in molti altri quartieri milanesi e viene selezionata nel 2019 fra le 10 Buone Pratiche italiane di Social Community Theater dalla rivista Ateatro. Nel 2020 co-fonda rete TiPiCi Trasformazione partecipata della comunità, con più di 70 associazioni dell’area metropolitana.
Dresda, Berlino, Barcellona, Milano, tutte città in cui ha avuto modo di studiare e sperimentare l’arte scenica. Cosa accomuna questi luoghi per quanto riguarda il rapporto comunità-teatro?
Sono tutti luoghi dove ho potuto vedere di persona quanto il senso di comunità e i progetti dedicati al sociale siano riconosciuti dalle istituzioni che riescono a sostenerli economicamente con fondi importanti. Il teatro è davvero valorizzato come una forma d’arte straordinaria che può diventare una pratica che aiuta a cambiare le nostre vite. Grazie a questa opportunità i progetti che prendono vita in quei territori sono più duraturi, hanno un impatto davvero rivoluzionario sulle persone che vi prendono parte. Anche qui succede, ma per la mia esperienza posso dire che c’è sempre molta difficoltà nel dare continuità alle azioni volte a un miglioramento del tessuto sociale a causa del fattore burocratico ed economico.
Da allora sono rimasta in contatto con colleghi e colleghe di Dresda e Berlino, soprattutto con la regista e drammaturga Christiane Wiegand della compagnia “Kiez-to-go” di Berlino con cui ho collaborato a un meraviglioso progetto di scambio con lo spettacolo “Shakespeare, I suppose” in cui ho portato un gruppo di cittadini e cittadine delle periferie di Milano a replicare lo spettacolo nei loro luoghi di intervento. La compagnia di Christiane sarà in platea per assistere allo spettacolo “Kafka of Suburbia”.
L’immaginario kafkiano è protagonista del laboratorio Kafka of Suburbia che andrá in scena il 4 aprile al Teatro Elfo Puccini: da cosa deriva la scelta degli autori che man mano analizzate e rappresentate nei laboratori? Quanto conta il giusto approccio educativo da parte vostra in relazione alla predisposizione alla comunicazione e alla condivisione dei partecipanti?
In questi dieci anni abbiamo lavorato a progetti biennali, dove la scintilla tematica è innescata dalla scelta di un testo-pretesto-autore da cui partire. Tale scelta è dettata dagli interessi e dalle ispirazioni del lavoro e portata alla comunità. Il processo è pensato all’inverso rispetto al teatro tradizionale, dove si sceglie a tavolino una pièce e poi si convocano le maestranze per la realizzazione dell’opera. Nel teatro sociale, invece l’autore è un pretesto e il metodo di lavoro è “cucina creativa”: cioè come gli ingredienti che ci si presentano nei quartieri andiamo a comporre la/le performance.
Si annuncia: quest’anno lavoreremo su Shakespeare (oppure Brecht, Cervantes, Jodorowsky, Kafka), cosa vi ricorda-suscita-risveglia questo autore? Si procede con interviste e parate, mappatura e ricerca di tutte le espressioni artistiche già operanti localmente, durante i laboratori si sperimentano varie modalità espressive che connettono il vissuto personale alle parole dei grandi autori. Un vero e proprio laboratorium in senso grotowskiano in cui ognuno possa portare la propria energia generatrice.
Trovare quindi modalità per raccontare le storie, talvolta difficili, delle persone senza essere “pornografici”, cioè ascoltando e valorizzando le esperienze di vita e filtrandole con il mezzo della letteratura e del teatro, elevando queste quotidianità ad opera d’arte e legittimando la possibilità espressiva delle persone che tante volte – attanagliate dai problemi della vita e dalle impietose burocrazie – non si possono permettere di percorrere le strade della creatività e della fantasia.
Il risultato è la Festa di Quartiere: un evento extra-quotidiano e rituale, che celebra i valori di riferimento e le istanze simboliche della comunità appoggiandosi alla rete dei quartieri, coinvolge i commercianti locali, favorisce la partecipazione attiva del pubblico. Una metamorfosi della periferia che trasforma la zona e chi la vive in un’opera d’arte vivente. Nei quartieri spettacoli, concerti, installazioni e performance con la partecipazione attiva di tutti. Proprio tutti. Percorsi complessi e sempre diversi, che necessitano la compresenza di competenze specifiche e presuppongono il lavoro sinergico di un collettivo di artisti, tecnici, operatori, educatori.
Ha ricevuto il Camomilla Award. Women for Women against Violence proprio qualche settimana fa: che responsabilità pensa abbia il teatro per il riscatto femminile e il delicato percorso di recupero post-violenza? Ha in cantiere progetti teatrali piú specifici rivolti a donne?
Il teatro è uno strumento potente di cambiamento, rinascita, consapevolezza e rivendicazione. Sono felice che Donatella Gimigliano mi abbia voluta valorizzare, condensando nella motivazione del premio tutte le difficoltà che una donna incontra e deve superare per farsi strada nella realizzazione delle sue aspirazioni e nel riconoscimento delle sue competenze.
“Per la sua attività di attrice, cantante, regista perché è riuscita a non essere sbalzata fuori dal teatro, nonostante le difficoltà e la maternità e anzi a farsi strada in un ruolo dirigenziale. Perché porta avanti la ferma convinzione che oggi come oggi sia necessario offrire le luci della ribalta soprattutto alle donne, ma non solo, anche a tutte quelle straordinarie diversità che sono ancora molto poco rappresentate sulla scena italiana”
Proprio questi aspetti ho voluto sottolineare nel mio monologo IL PALCO DI CRISTALLO. Il mio impegno a favore delle donne mi ha portato a fondare nel 2020 l’associazione Amleta, il cui scopo è contrastare la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo. E grazie al lavoro svolto con le mie colleghe, sono ora consapevole che il mio ruolo di regista presso il Teatro Elfo Puccini è ancora più importante perché simbolico: rappresento una minoranza. Grazie alla mappatura di Amleta sappiamo oggi che solo il 17,1 % sono registe donne rappresentate sui grandi palcoscenici italiani.
Nella nostra compagnia vi è un’attenzione particolare al linguaggio inclusivo, soprattutto nei testi. Ma non vogliamo limitare il lavoro al divario di genere binario, lavoriamo sull’inclusività tout court, sulla cosiddetta diversity, con l’obiettivo di dare voce a tutte le minoranze e le fragilità.
Nei vostri spettacoli la sostenibilità ha un ruolo preminente, dagli oggetti di scena ai costumi prodotti con materiali di riciclo o raccolti durante i tour; un’azione che smuove le coscienze alla luce di un contesto di partecipazione e mutuo soccorso. Pensa che il futuro del teatro possa svilupparsi sempre piú in questa direzione ecologica, indipendentemente dalla compagnia, o crede che sia urgente diffondere modelli di teatro sociale sul territorio italiano per sensibilizzare alla tematica?
L’ecologismo è una cosa seria, ormai non si può più far finta di niente. Fa parte di quella condivisione di valori che è la base del nostro progetto. Il teatro crea socialità e reali percorsi di mutuo soccorso, nei quartieri dove operiamo spesso le persone non si conoscono, attraverso il teatro invece si riescono a creare scambi, baratti e a contrastare la tendenza al consumismo. Per la creazione di scene e costumi degli spettacoli ci basiamo sulle 4R di Legambiente (anche nostro partner in molti progetti): Riusa, ricicla, recupera, riduci. In una parola: non si compra nulla, ma si crea con ciò che già c’è.
La sfida sta nel superare le difficoltà con la creatività. E questo scambio ci aiuta anche a perseguire gli obiettivi del teatro sociale. Per esempio: per far conoscere il nostro lavoro nel quartiere mi sono inventata la raccolta dell’oggetto simbolico. Il problema di questo tempo informatizzato è l’indifferenza, la reclusione in casa e la reticenza alla partecipazione. Però, laddove c’è un difetto il teatro trova il suo valore. Mi spiego meglio. Abbiamo detto al quartiere: per fare il nostro spettacolo abbiamo tutto, ma ci mancano i bottoni! L’anno dopo centrini, poi lenzuola, poi cerniere, poi nel caso di Kafka guanti di gomma per lavare i piatti. Quindi le persone si sono mobilitate e ci hanno letteralmente sommerso. Cosa ci farete? Faremo uno spettacolo grandioso che racconta la storia del quartiere e dei suoi abitanti, e costruiremo le scenografie e i costumi con tutti gli oggetti che ci avete donato. Ecco perché questo semplice oggetto che ognuno può avere in casa, diventa la rappresentazione scenica della comunità. Diventa quindi un simbolo della forza della collettività: un piccolo bottone da solo non vale quasi nulla, ma tutti insieme formano qualcosa di magnifico!
Negli anni abbiamo raccolto di tutto, abbiamo donato e continuiamo a donare abiti usati per grandi e piccini alle associazioni locali e abbiamo creato così la costumeria sociale “Sunomi” che si occupa di bonificare e adattare i costumi di scena per gli spettacoli, con un gusto meravigliosamente vintage.
Una vita dedicata all’arte la tua, in costante crescita e ricerca su tutti i fronti: quando e dove si raggiunge il delicato equilibrio tra la soddisfazione lavorativa fine a sé stessa, per una rappresentazione ben riuscita ad esempio, e il raggiungimento di progetti che possono concretamente influire sulla vita di altri, aprendo dialoghi che difficilmente un teatro tradizionale potrebbe aprire?
Oramai per me questi sono due aspetti inscindibili: il teatro e la vita. Anche in questo caso abbiamo superato i confini e possiamo dire che la nostra sia un’impresa famigliare allargata. Oramai i partecipanti ai nostri laboratori non sono più solo utenti, bensì persone con cui abbiamo relazioni intense che vanno ben al di là del semplice spettacolo. In questo Kafka lavorano i nostri genitori, ma anche i nostri figli. Per esempio, per permettere alle donne straniere di partecipare abbiamo dovuto includere i bambini nel progetto
Così Plinio e Dalia Wolf sono attori dello spettacolo, insieme a un gruppo di ben 18 bambini del quartiere Niguarda.
La complicità nell’arte smussa gli spigoli e ci fa meglio digerire anche la quotidianità, fatta di aspetti meno affascinanti, come la routine. Mentre cambiamo pannolini, ci confrontiamo sulla valenza della musica negli spettacoli. Sicuramente ciò non velocizza gli aspetti produttivi, poiché bisogna scontrarsi con i problemi delle persone, gli imprevisti, ma credo che tutto questo sia il valore del progetto e che in fondo sul palcoscenico sarà viva e presente tutta questa umanità a rendere ancora più magico lo spettacolo!
Immagine di copertina: Parte del cast dello spettacolo “Kafka of Suburbia”,2023 © Laila Pozzo