Provare a entrare nella mente di un’artista è un’operazione che chiunque vorrebbe, almeno una volta nella vita, sperimentare. Se poi l’artista è stata, come Yayoi Kusama, una delle grandi protagoniste dell’avanguardia degli anni Settanta, e ancora oggi, a 94 anni, non solo è una delle artiste più iconiche della scena internazionale, ma è anche nota per essere vissuta – e vivere tutt’ora – in una dépendance riservata solo a lei di un ospedale psichiatrico, il Seiwa Hospital di Tokyo, che l’ha accolta fin dagli anni Settanta per curare le ossessioni che la tormentano fin da quando era bambina, e la sua stessa vita è divenuta iconica ed emblematica, a dispetto della sua sofferenza reale e delle mille e infinite frustrazioni per aver visto amici e colleghi maschi appropriarsi delle sue idee e far carriera con facilità lasciandola sola con le sue ossessioni e i suoi fantasmi, ecco che il desiderio di capire cosa si celi nella sua testa può essere irresistibile.
Entrare, come è consentito oggi ai visitatori della mostra “Yayoi Kusama. Infinito Presente”, in corso a Bergamo fino al 24 Marzo 2024 a Palazzo della Ragione a Bergamo – soli, e per solo mezzo minuto a testa –, nella stanza “Fireflies on the Water”, una delle sue più celebri Infinity Mirror Rooms, proveniente dalla collezione del Whitney Museum of American Art di New York, può rappresentare esattamente questo: provare a confrontarsi con la sensazione di magmatico sfaldamento esistenziale, di surreale moltiplicazione di milioni e milioni di piani di realtà differenti, nell’irreale silenzio e nel baluginìo di luci, di ombre, di particelle luminose che sembrano moltiplicarsi all’infinito davanti e intorno a te, simboli insieme dell’infinita apertura della mente umana e dello stesso universo, nella difficoltà ontologica di discernere tra realtà e inganno ottico, tra percezione e materialità, tra materia fluida e superfici solide, tra spazio vuoto e riflesso: tu stesso, guardandoti in una superficie infinta che tuttavia contiene anche la tua stessa immagine riflessa, ma immersa, liquefatta in un altrove che non riesci a riconoscere se non mettendolo a confronto con la dimensione di uno strana visione tra l’onirico, lo psicanalitico e il fantascientifico (ti sembra di stare dentro a una replica di Matrix, perso in un metaverso dove tuttavia puoi muoverti con le tue stesse gambe, o dentro le cellule neuronali del tuo stesso cervello in continua ebollizione), tu stesso, dunque, sei parte di questo misterioso miracolo a occhi aperti, sei colui o colei che guarda e pensa l’universo nel momento in cui questo si materializza, e allo stesso tempo anche colui, o colei, che lo abita. Un Dio creatore e abitatore di un proprio universo personale, in cui sei solo con te stesso, con le tue speranze, le tue paure, i tuoi sogni, le tue percezioni del mondo e del reale.
È un’esperienza profonda, di riconnessione esistenziale, non una semplice “esperienza immersiva”, come si dice oggi a proposito di tante mostre che ti fanno entrare nei quadri di un artista con i mezzi della tecnologia, ma un momento di spaesamento delle coordinate esistenziali e di apertura verso l’infinito, quell’infinito che da sempre ci avvolge, ci permea, ci forgia. E non è un caso che a creare un’esperienza come questa, che può e deve essere chiamata “arte” ma è anche una prova, seppur fugacissima, di introspezione psichica e di estraniamento dalla banalità del quotidiano, sia stata un’artista che i confini, le coordinate e gli abissi della mente e dell’inconscio li ha esplorati a fondo, con una grande dose di sofferenza umana, Yayoi Kusama.
Un’infanzia tormentata
Originaria di Matsumoto, incantevole cittadina nella prefettura di Nagano, ai piedi delle Alpi giapponesi, Yayoi nacque in una famiglia agiata di commercianti di granaglie. Fin da bambina, mostrò una sensibilità straordinaria per l’arte, un rifugio dalle allucinazioni che la tormentavano costantemente. Tuttavia, la sua infanzia fu segnata da un rapporto drammaticamente conflittuale con la madre. Descritta dalla stessa artista come una “scaltra donna d’affari, sempre terribilmente impegnata nel suo lavoro”, costei infliggeva terribili angherie alla povera ragazzina, creando nella futura artista uno choc da cui non si sarebbe mai più ripresa completamente. “Odiava vedermi dipingere”, racconterà in seguito l’artista, “così distruggeva le tele su cui stavo lavorando. Mi picchiava e mi prendeva a schiaffi, o mi chiudeva in un magazzino, senza pasti, anche per mezza giornata. Mi maltrattava così tanto che oggi finirebbe senz’altro in galera”.
Il padre, al contrario, “uomo di buon cuore, ma incapace di reagire e di trovare un posto in casa”, appariva remissivo e quasi assente nella vita della figlia, incapace di contrastare il comportamento collerico e violento della moglie. Questa situazione così angosciante spinse la giovane Yayoi a desiderare un’esistenza altra, lontana da un ambiente così doloroso, violento e povero di stimoli per la sua crescita e la sua creatività, e di rifugiarsi in quella che indiscutibilmente stava per diventare la capitale dell’arte mondiale: New York. Fu qui che trovò il primo sostegno in una donna, un’artista al tempo già affermata e di grande fama, Georgia O’Keeffe, la quale la aiutò nei suoi primi passi nella Grande Mela. Fu la giovane Yayoi a contattarla appena giunta a New York, e l’artista americana cominciò ad aiutarla e a consigliarla, facendole sovente visita nel suo studio, dandole sostegno e conforto, e aiutandola anche nella ricerca di gallerie adatte ai suoi lavori.
Questo periodo a New York segnò l’inizio del successo per Yayoi Kusama. Le sue opere, spesso discusse per il loro carattere provocatorio e audace, erano un tentativo di sublimare le sue ossessioni e le sue paure, in particolare la sua ansia legata alla sessualità. Nascono infatti quel periodo i suoi lavori più scioccanti e provocatori: gli abiti incredibili e bizzarri, semitrasparenti o ricoperti di disegni con allusioni sessuali con i quali andava in giro per le strade di New York, l’abitudine di farsi fotografare completamente nuda in mezzo ai suoi lavori, e anche i raduni in pubblico, i famosi “Body Festival”, in perfetta sintonia con i festival hippy e dei figli dei fiori (il primo Body Paint Festival, che si tenne a New York di fronte alla chiesa di St. Patrick, data al 1967, lo stesso anno della Summer of Love di San Francisco), nei quali decine di ragazzi si ritrovavano a ballare nudi in mezzo alla strada, mentre lei ne dipingeva i corpi a pallini colorati.
Una profonda ricerca di spiritualità
Ma, al di là di queste manifestazioni appariscenti e provocatorie, Yayoi era alla ricerca costante di una profonda spiritualità. Il suo, già allora, era un tentativo di connettersi alle energie dell’universo: “Nell’universo ci sono il sole, la luna, la terra e centinaia di milioni di stelle”, scriveva. “Tutti noi viviamo nell’insondabile mistero e nell’infinità dell’universo. Perseguire la filosofia dell’universo attraverso l’arte mi ha portato a quella che chiamo ripetizione stereotipata”. Ecco il motivo dei pois con i quali ricopriva, già allora, compulsivamente ogni superficie possibile – finanche i corpi dei suoi amici –, con la necessità di ripeterli migliaia e migliaia di volte, metafora della molteplicità di stelle, di luci, di visioni, di emozioni e di energie presenti nell’universo. Perché, diceva, “con un solo pois non si potrebbe ottenere nulla” – un modo per dire che siamo tutti interconnessi uno all’altro, che ogni elemento è collegato a tutti gli altri, e che solo la visione dell’insieme delle cose, delle emozioni, dei desideri, delle sensibilità di tutte le forme esistenti dà senso all’universo.
La sua arte non era, e tutt’ora non è, semplicemente frutto di una ricerca estetica o teorica, ma ha sempre rappresentato una necessità quasi fisica, vitale, di superare le angosce e le ossessioni che le hanno impedito di vivere una vita normale. Un’arte, per dirla con le parole dell’artista, che “ha sempre riflettuto la grande profondità del mio cuore interiore”. Quando si trovava in Giappone, Yayoi usava praticare lo Zen sotto la pioggia, meditando nel fango per lunghe ore e versandosi acqua ghiacciata sulla testa, un rituale che precedeva la creazione delle sue straordinarie opere. “Non potevo lavorare altrimenti”, dichiarerà con la straordinaria semplicità che la contraddistingue, molti anni dopo.
Questo incessante bisogno di cercare soluzioni alle proprie paure, la costante ricerca spirituale e l’arte come veicolo di liberazione sono stati sempre elementi cardine della vita e dell’opera di Yayoi Kusama. “Traducendo le allucinazioni e la paura delle allucinazioni in opere d’arte”, dirà, “ho cercato di curare la mia malattia. La mia arte vuole essere una sorta di guarigione per tutta l’umanità”.