Addio a Girolamo Ciulla, scultore della favola e del mito

Girolamo Ciulla, uno dei protagonisti più originali e autentici della scultura italiana contemporanea, se n’è andato. Se n’è andato un po’ in punta di piedi, con quel suo modo in cui era solito attraversare, sotto il sole o con il brutto tempo, la piazza di Pietrasanta, divenuta ormai da oltre trent’anni la sua città, dopo che aveva lasciato la sua natìa Sicilia. Se n’è andato, ma ci ha lasciato le sue sculture, ermetiche e bellissime – sculture antiche e misteriose, ruvide e arcaiche come la pietra di cui sono fatte, di quella materia difficile da definire, perché pregna della fissità di sogni e di immagini ancestrali che sembrano sgorgare dalle favole d’una mitologia remota e antica come la stessa terra.

Girolamo Ciulla foto Claudio Francesconi

Se n’è andato, dunque, Girolamo Ciulla, che della Sicilia s’era portato dietro tutto, modi di fare, sguardi, la lentezza sorniona e cavernosa nel modo di guardarti e di parlarti, nonostante i tanti anni passati all’ombra delle Apuane, e quel suo scalfire e incidere la pietra e il travertino – lo faceva ancora, e ancora, nonostante il Parkinson che da molti anni ormai non gli lasciava più tregua –, e poi l’amore per quelle forme arcaiche, senza tempo, icone d’una mitologia antichissima, che sembrava gli si fossero inculcate dentro, nel profondo dell’animo, in un luogo remoto e profondo del suo essere che precedeva la sua nascita, la sua stessa cultura, le nozioni imparate, le cose lette e studiate: ed erano uccelli, coccodrilli, capre, asini, civette, e poi colonne, templi greci, barche, corde, spighe di campi arati fin dalla notte dei tempi…

E luoghi: quelle sue piazze abitate da presenze ieratiche, immense, come vestigia d’una civiltà remota – un volto di Afrodite che emerge, smisurato, dall’acqua e dalla terra, una fila di enormi coccodrilli, tre grandi mensole di marmo, crollate forse dal cielo, retaggio d’un tempo in cui i Giganti si contendevano l’universo con gli dèi: luoghi sacri, intimi, stranianti, dove sostare e riposarsi, dove mettersi seduti, a meditare sul filo rosso che ci unisce, indissolubilmente, ai nostri avi, alle leggende e alle storie che abbiamo letto e sentito raccontare mille volte da bambini, di dèi e dee che parlano, bisticciano e s’innamorano come facciamo noi, e che nel caso decidono del destino di noi umani con un semplice tiro di dadi. Le opere di Ciulla ci parlano del mito e della storia antica del Mediterraneo e delle basi più arcaiche della nostra cultura, ci parlano della Magna Grecia e dell’antica Etruria, sono favole per adulti che ci riallacciano a un mondo solo apparentemente perduto nel marasma della contemporaneità.

Non c’è mai nulla di didascalico, di artefatto, nei suoi sogni di travertino e di pietra. Ci sono dèi e dee che con la loro immobilità remota sembrano sfidare il trascorrere del tempo. Ci sono animali severi e austeri come antichi monarchi, sovrani di un altro mondo e di un altro tempo − coccodrilli, capri, muli che si trascinano dietro, come due bisacce, piccoli tempietti fissati al dorso da robuste corde. Ci sono coccodrilli in tessuto di iuta, stretti tra vecchie corde come nelle fasce d’una mummia egizia, che sembrano essersi arrampicati, chissà come, sulla cima più alta d’una colonna per scrutare, da là sopra, il mondo sterminato e arcaico delle leggi immutabili della vita e della morte, il mondo delle favole e delle leggende antiche che si tramandano fin dall’origine dei tempi, un mondo fatto di pietra e di grano, di costruzioni semplici e lineari come la pianta d’un tempio greco, di dee e miti arcaici ed ancestrali come quello di Cerere e della Grande Madre, di riti di fertilità e di rinascita, di leggende antichissime che, parlando d’altro, non fanno che parlare di noi stessi e della nostra natura più intima e segreta.

Nelle sue sculture, elaboratissime e insieme semplici e ruvide come misteriosi totem votivi provenienti da un’altra epoca e da un’altra dimensione, si respira il senso di una vita che guarda ai miti e ai culti di morte e di rinascita con la naturalezza che solo i popoli d’una civiltà remota, che traevano la loro saggezza profonda dal rapporto quotidiano con la terra, con le messi, con le stagioni e con i loro miti antichi e primitivi, riuscivano pienamente a sviluppare. E non sarà un caso, allora, la presenza costante e ripetuta di Cerere tra le sue figure femminili più riguardate e ripetute − Cerere, la Grande Madre, Cerere, la madre di Proserpina, colei che sconfigge Ade, ma al contempo ne è sempre sconfitta, Cerere la dea del grano e delle stagioni, di tutte le morti e di tutte le rinascite.

L’ha sperimentata e fatta propria, Girolamo Ciulla, questa esperienza di morte e di rinascita, nel suo immergere, giorno dopo giorno, mani e piedi nella polvere, nel suo torcere e costringere la pietra a prender vita e forma sotto la forza e la volontà dei suoi attrezzi e delle sue mani, al pari di un rinato Efesto, chiuso e concentrato in quel grande, straordinario laboratorio creativo che è la Bottega Versiliese, tra i battiti dei mazzuoli e dei martelli, lo sbozzare, il levigare, e scalpellare, scavare, lapidare, tra il rollìo delle macchine e lo sfarinarsi dei marmi che si sciolgono al vento in un impalpabile ma denso pulviscolo biancastro, con quella sua passione primitiva del creare, una passione ancestrale, arcaica, atavica come certe immagini che abbiamo forse sognato da bambini, e che restano attorcigliate, avvinte per sempre al fondo più scuro del nostro inconscio.

Ecco allora che a noi piace immaginarlo ancora lì, in un angolo della grande stanza, immerso, quasi nascosto dai suoi abbozzi di sculture, dalle steli, dalle colonne lunghe e strette come i colli di Modigliani, dietro a separé di marmo che somigliano a spighe di grano ritte sotto il solleone estivo, lì, ancora al lavoro su qualcosa – una dea Cerere, o un coccodrillo, o un antico tempio greco abbarbicato sulla cima di una colonna dorica.

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