Antropologo dell’arte: così alcuni definiscono Claudio Costa, non senza quel fremito riverente che deriva dalla mistica seduzione di cui si impregnano le materie antropologiche, frequentate anche da chi scrive. Lo studio dei gruppi umani in tutte le loro forme e manifestazioni, infatti, sembra investire il professionista della disciplina di una dignità quasi sacerdotale, motivata da una prerogativa non puramente riscontrabile altrove, nemmeno nei preti: occuparsi dell’entità della vita stessa, il peccato originale.
Costa, a ben vedere, fa propria la sostanza dell’uomo negli auspici dell’artista e dell’intellettuale composito, invece provocando l’antropologia stricto sensu attraverso indagini materiche volte a sviscerare mondi passati e trapassati, rurali e arcaici, contadini e tribali, per ribadire la potenza del fabbrile in un tempo automatico, meccanicamente ferino e irrazionale. Di tali vicende creative ritroviamo gli esiti nella sapiente sintesi di Ecce Homo, affascinante retrospettiva allestita presso la Galleria della Fondazione Culturale San Fedele ed il Museo San Fedele, nell’omonima chiesa di Milano, incaricata di condensare in 20 opere il prodotto dei linguaggi artistici frequentati dall’autore dal 1968 al 1994, ma spiritualmente da una vita intera.
Curata da Andrea Dall’Asta e Stefano Castelli, la mostra non avrebbe potuto chiedere migliore contesto, dal pudore gesuita pensato per coniugare intimamente arte e fede; d’altra parte, l’arte stessa è fede in un qualcosa di inscalfibile, e il dialogo fra Claudio Costa e la pluralità della materia rispetta i requisiti del monito ad imperitura memoria, tutt’al più divisivo. Nato a Tirana da genitori italiani e poi nuovamente trasferitosi nello Stivale, l’artista si rivela presto una figura complessa, precocemente dedita alla curiosità del fare umano in tutte le sue traduzioni, a partire da quelle architettonico-costruttive incontrate nella facoltà di architettura del Politecnico di Milano, premessa ad un profondo interesse verso le scienze sociali e particolarmente quelle antropologiche, nel nome delle quali orienterà i suoi sforzi creativi.
L’oggetto «deve rimanere col suo statuto antropologico, per quello che è, dove è nato», ebbe a dire, e nel retroterra di una attenzione etnografica già perfezionata nella sesta edizione di Documenta a Kassel (1977) ritroviamo dunque studi filosofici e poetici, come anche letterari e ben più di semplici sguardi verso la biologia e la chimica. L’incontro con l’amico Marcel Duchamp, avvenuto nell’infuocata Parigi del Maggio francese (1968), ottiene in certo modo di suggellare il flirt con l’arte contemporanea, di cui Claudio Costa contribuirà significativamente a radicare lo statuto nella società capitalistica moderna; fra i principi cardinali dei suoi linguaggi, infatti, compare il senso del riscatto delle culture subalterne e degli invisibili, a cui non manca di dare voce nel costante impegno sociale.
Il sublime dell’essere nel potere del generare è ciò che l’artista ligure restituisce con la sua arte concettuale trasferendo, in chi la osserva, la consapevolezza della distanza tra noi e gli altri, situata su un piano diacronico nel quale la sua arte si fa, per dirla con le sue parole, work in regress, attenzione cosciente all’importanza ed al vigore di ciò ch’è stato.
Non so, è tutto molto difficile. È un’esperienza nuova, complessa, di cui, per poter parlare approfonditamente, bisognerà lasciar passare ancora molto tempo (1990).
Nella caratura umana di Costa, com’è evidente, c’è sempre stato spazio per una onestà di ascendenza scientifica, che sull’attesa e sull’investimento della fatica finalizzata alla sperimentazione di accostamenti e raccordi plastici sempre nuovi – ma soprattutto alla realizzazione di un prodotto accessibile e mai criptico – saprà fondare il suo codice espressivo; è un innovatore, ad esempio, nella spregiudicatezza dell’uso di materiali non specifici in arte come grafite, amido, colla di pesce, acidi, solfato di rame e argilla (fra gli altri), oltre ai più comuni metalli, particolarmente attinti dal mondo contadino, in quegli «oggetti della fatica dell’uomo» che sempre gli saranno cari. Classico e inedito dialogano in Ecce Homo, che nell’eloquenza del suo nome non tradisce la causa: il racconto consapevole, originale e impegnato delle infinite possibilità di scrittura culturale che possiamo in quanto presenti nel mondo.