All’interno del dibattito contemporaneo sul ruolo dell’arte, talvolta emerge un afflato, un drift invisibile e latente, anacronistico. Nonostante il disorientamento, la diminuzione progressiva del senso di appartenenza comunitario, l’aumento irreversibile delle disuguaglianze economico-sociali, la cronicizzazione di stati ansiosi e depressivi, l’imperversare della crisi ambientale e degli evidenti processi di deindustrializzazione, terziarizzazione e globalizzazione – solo alcuni fra i caratteri maggiormente paradigmatici del vivere odierno –, le manifestazioni visive convenzionali continuano ad assolvere una funzione di rassicurazione esistenziale per l’individuo.
Attraverso la supposta contemplazione – talvolta ridotta in semplice osservazione passiva – di figure, forme e finanche paesaggi convalidati dall’immaginario collettivo, l’io frammentato ritroverebbe un ancoraggio simbolico e valoriale in schemi socialmente e visivamente condivisi e falsamente leggittimati. Benché gli archetipi artistici comuni – come l’eroe, il mostro, il saggio, la madre, l’amante, il folle, il viaggiatore, il guerriero, il re e la regina – siano riconosciuti e apprezzati – si basano, del resto, su elementi che risuonano nell’esperienza umana comune –, quando mutano in rappresentazioni sinistre o inquiete possono non sortire un effetto confortevole, sradicando conseguentemente sentimenti di familiarità. Gli archetipi non assolvono più, quindi, alla funzione “protettiva” e rassicurante originaria. La stabilità referenziale di certe opere e ambientazioni ricorrenti contribuirebbe a dare forma ad una weltanschauung riconoscibile, lenendo l’inquietudine tipica dei tempi attuali. Fortunatamente, la decostruzione di tali schemi è frequente, quotidiana e perpetuata in maniera fortemente incisiva da diversə artistə.
Ma, si sa, deterior surdus eo nullus qui renuit audire e non c’è miglior cieco di quello che non vuole vedere. Le opere di Shary Boyle (Scarbourough, Ontario, 1972) non sono le tele di Pieter Bruegel il Vecchio: non ammoniscono e non fanno ravvedere, ma la loro fonda natura sovvertitrice lascia che diventino efficaci pungoli intellettuali, seppur vestite d’abiti rococò. All’interno del contesto post-metropolita attuale, la rinomata visual artist canadese – protagonista rappresentante della Maple Leaf Flag durante 55a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia con Music for Silence, fra le opere più ambiziose della sua carriera – è coinvolta da sempre in un magma ribollente e demistificante: è commovente ricordare che, durante gli anni liceali, partecipa alla scena musicale harcore-punk torontina impegnandosi, poi, nella distribuzione gratuita di piccole fanzine. Da sempre dissidente, mai conforme.
Dal 1998, Boyle lavora una specifica tipologia di argilla polimerica sintetica chiamata sculpey: tuttavia, polimatericità e multidisciplinarità sono le keywords che contraddistinguono la sua parabola artistica e che le consentono di esplorare territori espressivi situati ai limiti di ogni classificazione categorica. Servendosi delle discipline grafiche, pittoriche e plastiche – così come della performance art e della site-specificity –, Boyle esplora temi legati alla corporeità e ai suoi confini, al binomio natura/artificio, alle questioni di genere e ambientali, alle minorities.
Indaga i mostri del sé e le chimere psichiche, attingendo sovente a un immaginario colto e raffinato fatto di miti, fiabe e folclore. Nell’eterogenea produzione di Boyle spiccano ceramiche, porcellane e terrecotte, fra le realizzazioni maggiormente meritevoli di menzione, soprattutto per le loro peculiari caratteristiche formali e contenutistiche: manipolando l’impasto in modo elegante e giungendo a un risultato visivo estremamente candido, l’artista forgia creature ibride e innaturali che annullano qualsiasi distinzione fra regno umano, animale e artificiale, delineando universi plastici metaforici capaci di meravigliare, confondere e finanche disturbare.
Le forme plasmate da Boyle evidenziano preoccupazioni umane: vogliono trasportarci al di là dell’humus rassicurante della cecità, svelandoci la cruda realtà dell’esistenza antropica, come avviene in The Uses of Enchantment: Art & Environmentalism, mostra collettiva tenutasi nelle sale della McMichael Collection, il regno di Tom Thomson e del Group of Seven, la cui poetica si basa sulla ricerca di una pittura autoctona canadese mediante l’osservazione diretta di una natura ancora incontaminata e risparmiata dagli esiti disastrosi del cambiamento climatico.
In questo contesto espositivo, Boyle esplora il degrado ambientale, la perdita di specie e di habitat in modo incantevole quanto brutale, mettendo in discussione le certezze di chi si sente al sicuro nella propria posizione privilegiata. Diventa una teratologa che indaga malformazioni e anomalie umane, animali e vegetali; diventa un’alchimista che trasforma l’ecoansia in favola. Non attraverso caoticità insolente, bensì mediante inquietudine viscerale, le sue visioni permettono di dematerializzare il velo di Maya e intravedere realmente spiragli di cruda verità. Boyle si conferma come una delle figure più rilevanti nel panorama artistico internazionale e contemporaneo perché capace di stimolare riflessioni critiche sugli aspetti destabilizzanti che riguardano l’hic et nunc in maniera visivamente appetitosa e ammaliante. Proprio come il rococò, l’arte di Boyle cela i fermenti del dissenso sotto un effimero decorativismo: rappresentazione obliqua, criptica e fiabesca del disagio contemporaneo.