Continua la nostra indagine sugli artisti invitati alla Mostra Internazionale della prossima Biennale Arte di Venezia. Un totale di 332 artisti, provenienti da tutti i paesi del mondo e di tutte le generazioni. Le prime cinque puntate sono state pubblicate qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 1), qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 2), qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 3) qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 4) e qua (Speciale Artisti Biennale 2024 pt. 5). Di seguito, ecco la sesta puntata. Per raccontarvi ogni artista in poche righe, con un’opera rappresentativa della sua ricerca.
Khaled Jarrar (1976, Jenin, Palestina)
Artista palestinese, lavora e vive a Ramallah, portando avanti una produzione complessa e variegata che esplora la drammatica situazione vissuta dal suo popolo. Nella sua produzione indaga le questioni legate all’occupazione della Palestina, per restituire voce alle milioni di persone che ogni giorno lottano per sopravvivere affrontando conflitti, fame e leggi discriminatorie. Jarrar ha sperimentato diversi medium, dalla fotografia, alla video arte, alle installazioni, alla scultura fino alla performance site specific. Mezzi di espressione con i quali enfatizza l’intensità della lotta per il potere in atto in Palestina e il suo terribile impatto sulle vite dei palestinesi, in particolare in Cisgiordania.
La storia della sua terra ha profondamente influenzato la ricerca dell’artista che, nonostante abbia completo i suoi studi nel 1996 in Interior Design presso il Politecnico della Palestina, ha lavorato prima come guardia del corpo per il leader dell’OLP, Yasser Arafat, e poi clandestinamente come falegname. Dopo aver ottenuto un secondo diploma di laurea presso l’International Academy of Art Palestine nel 2011, Jammar è divenuto celebre per avere dipinto una bandiera arcobaleno su una sezione di muro della Cisgiordania. Opera considerata oltraggiosa e coperta con un altro murales da un gruppo di artisti locali, azione che palesa l’assenza di tolleranza e di libertà nella società palestinese e la persecuzione subita dalla comunità LGBTQIA+. Le sue opere sono diventate dei simboli di protesta noti in tutto il mondo, portandolo ad essere un artista internazionale esposto in istituzioni come il Centre Pompidou di Parigi.
Sara Jordenö (1974, Jordenö, Svezia)
È una regista, artista visiva e ricercatrice la cui produzione si colloca all’intersezione tra arte, attivismo, etnografia visiva e cinema. Durante le varie fasi della sua carriera artistica è stata attiva in Europa e negli Usa lavorando con film, video e installazioni, oltre che con testi e animazioni. I suoi progetti si focalizzano su gruppi etnici e comunità che subiscono diversi tipi di discriminazioni e sulle varie strategie di sopravvivenza messe in atto per difendersi dall’emarginazione sociale. Jordenö ha diretto il lungometraggio «KIKI» (2016), che immerge i visitatori nelle vicende legate ad un movimento sociale guidato da giovani LGBTQ+ di colore a New York, portando a galla fenomeni come il vogueing, stile di danza contemporanea, nato nei locali gay già nei primi anni Sessanta. Film nato da una stretta collaborazione con la leader della comunità, Twiggy Pucci Garçon, e con altri membri della scena newyorkese. Il documentario ha partecipato con successo a più di 80 festival cinematografici in tutto il mondo, ottenendo il prestigioso Teddy Award per il miglior film documentario al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Le sue installazioni e i suoi video sono stati esposti in svariate sedi internazionali come il Moderna Museet di Stoccolma, il Bildmuseet di Umeå, il Malmö Konstmuseum, il Walker Art Center di Minneapolis, il Kitchen e il MoMA PS1 di New York.
Bani Khoshnoudi (1977, Teheran)
Regista e artista iraniana attualmente vive a lavora tra Città del Messico e Parigi. Khoshnoudi ha studiato architettura, fotografia e cinema presso l’Università del Texas ad Austin ed è stata in residenza presso il Whitney Museum of American Art’s Independent Study Program di New York.
È stata selezionata per la Cinéfondation Writing Residency al Festival di Cannes, per cui ha scritto il suo primo lungometraggio «Ziba». Attingendo dal suo background in fotografia e architettura, Bani Khoshnoudi esplora i concetti di esilio e modernità, spostamento, collettività, dislocazione e memoria, facendosi portatrice della lotta femminista e delle crescenti proteste per i diritti civili in Medio Oriente.
Sebbene Khoshnoudi esponga la sua visione principalmente tramite il mezzo cinematografico, ha anche esposto progetti di arti visive e installazioni in tutto il mondo. I suoi documentari e lungometraggi, The Silent Majority Speaks (2010), A People In The Shadows (2008) e Transit (2005), sono proiettanti in svariati festival internazionali, tra cui il Festival del Cinema dell’America Latina di Tolosa e il Miami Film Festival. Fireflies (2018), il suo secondo lungometraggio di finzione, è stato presentato in anteprima al Festival Internazionale del Cinema di Rotterdam (IFFR), ed ha vinto il Premio HBO per il miglior lungometraggio iberoamericano al Miami International Film Festival.
Maria Kourkouta (1982, Grecia) & Niki Giannari (1968, Grecia)
Duo composto dalla scrittrice Niki Giannari e dalla regista Maria Kourkouta dalla cui unione è nato il film Spectres are haunting Europe. Protagonisti di questo progetto cinematografico sono i numerosi “spettri che minacciano l’Europa”, i migranti provenienti dall’Asia pronti a minare la Fortezza Europa. Persone costrette ad affrontare un viaggio costellato di intemperie e fatiche, spesso dipinte come usurpatrici dagli occidentali, ma in realtà vittime di una sistema globalizzato iniquo. Un film a metà strada tra il réportage fotografico e la video-installazione che, a sussulti, si popola di volti, storie, sorrisi, parole, animandosi di grida di protesta. Lo stile rigoroso ed essenziale delle registe restituisce in tutta la sua contingente brutalità la nuova banalità del male, che ancora una volta prende possesso dell’essere umano, ridotto solamente ad una misera pedina all’interno del crudele gioco che regola il mondo.
Kourkouta, studiosa e autrice di cinema, ha concluso un dottorato sulla questione del ritmo nel cinema per poi intraprende una carriera da regista. Dal 2008 ha realizzato diversi lungometraggi, per lo più in 16mm, collaborando con alcuni laboratori cinematografici indipendenti in Francia (come ETNA e L’Abominable). La maggior parte delle sue opere cinematografiche sono distribuite da Light Cone. Entrambe le artiste, da anni si fanno carico della situazione dei rifugiati, tema di estrema attualità che ha un posto centrale nelle loro ricerche e nello loro vite. Giannari e Kourkouta sono intellettuali attive nelle iniziative sociali e politiche del proprio Paese, che da anni sostengono progetti nei campi profughi dei migranti, in particolare quelli di Idomeni al confine con la Macedonia.
Pedro Lemebel (1952 – 2015, Santiago, Cile)
Autore cileno noto per aver scritto moltissime cronache urbane, pubblicate sui giornali dell’opposizione, e un romanzo. Personaggio eclettico e grande sostenitore dei diritti civili durante la dittatura di Pinochet, amatissimo dalla comunità omosessuale e dalla sinistra cilena, ha lavorato in radio e ha svolto la professione di insegnante, ruolo da cui è stato allontanato per via della sua omosessualità.
Evento che lo spinse a creare, nel 1987, il duo artistico Le cavalle dell’apocalisse, insieme a Francisco Casascon, con cui ha messo in scena almeno quindici memorabili eventi pubblici, mescolando performance provocatorie, trasformismo, fotografia, video e installazioni, per rivendicare il diritto alla vita, alla memoria, alla libertà sessuale. Lemebel ha usato la penna come strumento di denuncia e documentazione contro le ingiustizie subite dalla comunità LGBTQIA+, per dare vita a numerose narrazione provocatorie, divenute celebri per lo scandalo che sono state capaci di suscitare nella società cilena dell’epoca.
Angela Melitopoulos (1961, Monaco)
Artista tedesca residente a Berlino che, dal 1985, realizza video-saggi sperimentali, installazioni, documentari e opere sonore. Melitopoulus ha completato la sua formazione all’Accademia d’Arte di Düsseldorf, studiando a stretto contatto con artisti del calibro di Nam June Paik, per poi conseguire un dottorato in Culture Visive presso la Goldsmiths University di Londra. La sua ricerca artistica si concentra sulla politica, sulla percezione del tempo, sulla geografia e sulla memoria collettiva in rapporto con i media elettronici/digitali e la documentazione cinematografica.
Angela Melitopoulos utilizza il mezzo video come strumento di intervento sensoriale sul reale, in progetti che, partendo da casi di studio specifici, affrontano le contingenze storiche e le condizioni tecnologiche che influenzano la nostra esperienza cinematografica del mondo. Durante la sua carriera ha lavorato a diversi progetti di ricerca collettivi incentrati sulla geopolitica, organizzando come attivista anche seminare internazionali e iniziative mediatiche. I suoi video e le sue installazioni sono stati premiati e presentati in numerosi festival, mostre, fiere e musei internazionali come Berlinale, Berlino; Haus der Kulturen der Welt, Berlino; Antonin Tapies Foundation, Barcellona; KW Institute for Contemporary Art, Berlino; Manifesta 7; Centre Georges Pompidou, Parigi, Whitney Museum, New York e Documenta 14, Kassel.
Jota Mombaça (1991, Natal, Brasile)
Artista brasiliano non-binario noto per la sua attività performativa e la sua narrativa visionaria, che intende mettere in scena la fine del mondo così come lo conosciamo e raffiguriamo per aprire una finestra su ciò che verrà dopo aver cancellato il colonialismo moderno. Attualmente vive e lavora tra Lisbona e Amsterdam, dove porta avanti un percorso di riflessione che concentra i suoi sforzi sull’opacità e l’autoconservazione nell’esperienza di artisti trans ancora discriminati nel mondo dell’arte globale. La materia sonora e visiva delle parole gioca un ruolo importante nella sua originale produzione, che è intrinsecamente legata alla critica anticoloniale e alla disobbedienza di genere.
Mombasa fa parte di una generazione di artisti attivisti che nutrono il dibattito sulla decolonizzazione e sul razzismo tramite lavori di intersezione tra le dimensioni della classe sociale e dell’identità di genere. Nel 2020 ha completato una residenza artistica presso la prestigiosa Pernod Ricard Fellowship di Parigi, dove ha realizzato il film «What has no space is everywhere», su invito dell’Istituto Moreira Salles. Mentre, nel settembre 2021, ha inaugurato la mostra personale Atravessar a Grande Noite Sem Acender a Luz, presso il Centro Culturale di San Paolo. Inoltre, l’artista ha partecipato a diversi eventi internazionali come la 34ª Biennale di San Paolo, Faz Escuro Mas Eu Canto, la Biennale di Sydney, la Biennale di Berlino nel 2017-2018 e la Biennale di San Paolo nel 2016.
Carlos Motta (1978, Bogotà)
Artista di origini colombiane residente a New York, nella sua pratica artistica interdisciplinare documenta le condizioni sociali e le lotte politiche delle comunità LGBTQ+, di genere ed etniche per mettere in discussione le idee dominanti riguardo alle politiche sulla sessualità e sull’identità di genere con tutte le loro connessioni. Come storico delle narrazioni non convenzionali e archivista di storie represse la sua ricerca assume una forte identità politica, usufruendo delle potenzialità di differenti mezzi tra cui video, installazioni, sculture, disegni, progetti basati sul web, performance e simposi.
Nel 2018, l’artista è stato oggetto di una mostra itinerante sulla sua carriera presso il Museo de Arte Moderno di Medellín, Colombia e Matucana 100, Santiago, Cile. I suoi film sono stati proiettati: al Rotterdam Film Festival (2016, 2010), al Toronto International Film Festival (2013) e all’Internationale Kurzfilmtage Winterthur (2016). Mentre le sue opere presenziano nelle collezioni permanenti del Metropolitan Museum of Art di New York, del Museum of Modern Art di New York, del Guggenheim Museum di New York, del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, del Museo de Arte Contemporaneo di Barcellona e del Museo de Arte de Banco de la República di Bogotá.
Zanele Muholi (1972, Umiazi, Sudafrica)
Artista, fotografa e attivista sudafricana emersa come sostenitrice della lotta per la visibilità e l’affermazione dell’identità lesbica nel suo Paese. Con l’avvento della nuova costituzione del 1966, il Sudafrica poneva termine all’apartheid e tutelava per la prima volta i diritti della comunità omosessuale. È in questo contesto di cambiamento, ma anche di persistenti crimini d’odio contro le persone LGBTQIA+, che prende avvio il lavoro di Muholi nato come forma di resistenza visiva contro il razzismo, il colonialismo e l’intolleranza. Le sue fotografie, sono vere e proprie armi contro gli stereotipi, capaci di estendere la consapevolezza sui diritti umani e influenzare l’opinione pubblica: catturano con intimità e autenticità le diverse identità scavando oltre la superficie per conoscere le anime dei soggetti ritratti.
La sua estetica audace, provocatoria e al contempo delicata offre una narrazione visiva che sfida le convenzioni sociali e celebra la diversità delle esperienze queer. L’artista enfatizza la fluidità di genere e l’auto espressione e rimarca l’unicità di ogni individuo. Attraverso una metodologia collaborativa, i soggetti diventano “partecipanti” attivi, scegliendo come presentarsi nell’immagine. La scelta di adoperare la fotografia in bianco e nero infonde ai suoi scatti una dimensione di universalità e intimità, focalizzando l’attenzione del fruitore sulle espressioni e sulle connessioni emotive.
Pınar Öğrenci (1973 Van, Turchia)
Scrittrice e artista turca multidisciplinare vive e lavora a Berlino. Nella sua ricerca porta avanti una prospettiva decoloniale e femminista capace di toccare questioni sociali, politiche e storiche. Indaga le tracce delle migrazioni, dello sfollamento forzato e dalla violenza di Stato, nonché i temi della sopravvivenza e della resistenza, così come della memoria. Spesso integrando vari medium dalla immagini, ai video, alle performance, alle installazioni fino alle registrazioni sonore d’archivio, per decontestualizzarli e intrecciarli in racconti e poetiche dalle molteplici letture.
Ha lavorato come guest lecturer presso l’HFK, l’Università delle Arti di Brema e l’Università Leuphana di Luneburg e attualmente al programma di Master della Kunsthochschule Berlin Weißensee RaumStrategies. Il video rappresenta per lei uno strumento di indagine antropologica attraverso il quale può esplorare le urgenze del contemporaneo. Il suo primo film documentario “Gurbet is a home now” ha vinto il Premio speciale della giuria del Documentarist Film Festival ed è stato selezionato per il National Documentary Film Competition dell’Istanbul Film Festival nel 2021. Artista riconosciuta a livello internazionale è presente in numerosi musei e istituzioni artistiche, tra cui Berlinische Galerie (2023), documentafifteen 2022, Kassel, 3° Biennale Art Encounters (2019), 7° Biennale di Sinop (2019), 12° Biennale di Gwangju (2018), 6° Biennale di Atene (2018), la Tensta Konsthall di Stoccolma (2018), e il Museo Ebraico di Monaco di Baviera (2019).
Daniela Ortiz (1986, Perù)Artista peruviana, vive e lavora a Cusco in Perù. Attraverso le sue opere mira a generare narrative visuali nelle quali i concetti di nazionalità, razza, classe sociali e generi sono esplorati con uno sguardo critico verso il colonialismo, il patriarcato e l’economia consumistica. I suoi progetti più recenti analizzano il sistema migratorio europeo, sfidando le dinamiche di violenza e denigrazione verso le comunità dei migranti. Inoltre, ha sviluppato progetti sull’alta società peruviana e sul suo rapporto di sfruttamento con i lavoratori domestici. Recentemente, la sua pratica artistica è tornata alla dimensione delle arti visive e scultoree, sviluppando opere in ceramica, collage e formati come i libri per bambini, per allontanarsi dall’estetica dell’arte concettuale eurocentrica. Ha ricevuto numerosi premi e sovvenzioni, tra cui la borsa di studio Barcelona Producció (2013), la borsa di studio Grupo Investigación Peninsula del MNCARS (2013).
Nel 2017 ha prodotto una pubblicazione antirazzista per bambini, «ABC dell’Europa razzista», scaricabile gratuitamente online. Attiva nel mondo al di fuori della sua pratica artistica, Daniela Ortiz è autrice di diverse pubblicazioni e ha tenuto numerosi workshop in Spagna e a livello internazionale. Partecipa spesso a conferenze e incontri pubblici. Le sue opere sono state esposte alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, al Palais de Tokyo, all’EMST National Museum of Contemporary Art di Atene, al Ludwig Museum (Colonia), all’Arnhem Museum in Olanda, al CIVA di Bruxelles e in molte altre sedi internazionali.
Thunska Pansittivorakul (1973, Bangkok, Thailandia)
È un regista thailandese divenuto celebre grazie al suo secondo lungometraggio documentario, 2Happy Berry”, che ha vinto il Gran Premio al 4° Taiwan International Documentary Festival nel 2004. Dopo aver completato gli studi in Educazione Artistica all’università di Bangkok, ha intrapreso la carriera da regista ottenendo svariati riconoscimenti. Il suo primo film di finzione «Supernatural» (2014) è stato presentato in anteprima mondiale all’IFFR.
Ha collaborato con Harit Srikhao ai documentari Spacetime (2015) e Homogeneous, Empty Time (2017). Nel 2007, ha ricevuto il premio Silpathorn dall’Ufficio per le arti contemporanee del Ministero della Cultura, mentre nel 2012 Pansittivorakul ha fondato la società di produzione indipendente Sleep of Reason Films. Attualmente, insegna presso il dipartimento di cinema dell’Università di Bangkok.
Anand Patwardhan (1950, Bombay, India)
Acclamato regista, sociologo ed esperto di comunicazione indiano noto per i suoi documentari politici. Gran parte dei suoi film esplorano l‘ascesa del fondamentalismo religioso, del settarismo e del casteismo in India, mentre altri indagano aspetti come il nazionalismo nucleare e lo sviluppo economico, diventato insostenibile per il pianeta.
Nel dicembre 2023, insieme ad altri 50 registi, Patwardhan ha firmato una lettera di protesta, pubblicata su Libération, in cui chiedeva un cessate il fuoco e la fine delle esecuzione dei civili durante l’invasione israeliana della Striscia di Gaza, e la creazione di un corridoio umanitario a Gaza per il trasporto degli aiuti umanitari e il rilascio degli ostaggi.
I suoi numerosi lungometraggi sono stati proiettati all’IFFR in diverse occasioni, tra cui, più recentemente, «In the Name of God» (1992) all’IFFR 2023. Nella sua trentennale carriera ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio speciale della giuria al Cinéma du Réel per Hamara Shahar/Bombay Our City (1985) e il Miglior lungometraggio documentario all’International Documentary Film Festival Amsterdam per Vivek (2018). Tra i suoi documentari troviamo alcuni capolavori del cinema indiano come: Bombay: Our City (1985), In Memory of Friends (1990), In the Name of God (1992) e Father, Son, and Holy War (1995).
Sim Chi Yin (Singapore, 1968)
Artista originaria di Singapore la cui ricerca è basata sull’esplorazione del mezzo fotografico, dell’immagine in movimento, sugli interventi d’archivio, sulla creazione di libri e sulla performance. Medium attraverso i quali porta avanti una riflessione sulla storia, sulla memoria, sul conflitto e sull’estrazione. Ha dedicato gli ultimi dieci anni alla realizzazione di un progetto multi-capitolo che narra la storia della sua famiglia e della guerra di decolonizzazione in Malesia, One Day We’ll Understand, recentemente esposto alla Biennale di Istanbul nel 2022.
Nel 2023 ha realizzato un’installazione fotografica e un VR di «Shifting Sands», opera sull’esaurimento globale della sabbia, in mostra al Gropius Bau di Berlino. Lavoro che sarà esposto anche al Barbican di Londra nell’autunno del 2023.
Sim Chi Yin ha ricoperto a lungo il ruolo di giornalista e corrispondente estero presso lo Straits Times, rafforzando il suo interesse per le tematiche sociali e politiche. Nel 2010, si è dimessa per lavorare a tempo pieno come fotografa freelance e, nel giro di soli quattro anni, ha iniziato a lavorare come foto-giornalista, ricevendo regolarmente incarichi dal New York Times. L’artista ha trascorso anni della sua vita a fotografare e documentare i minatori d’oro cinesi, affetti da silicosi per via del malsano ambiente di lavoro, scatti pubblicati nel saggio fotografico Dying To Breathe.
Nel 2017, ha ricevuto l’incarico in qualità di fotografa ufficiale del Premio Nobel per la Pace, di realizzare un lavoro sul vincitore. La serie di scatti, oggi esposta presso il museo del Nobel Peace Center di Oslo, esalta le similitudini tra i paesaggi legati alle armi nucleari negli Usa, in Cina e in Corea del Nord. Le sue opere fanno parte delle collezioni dell’Harvard Art Museums, del J. Paul Getty Museum, dell’M+ Hong Kong, del Singapore Art Museum e del National Museum Singapore. Attualmente vive a New York, dov’è stata artist fellow del Whitney Museum’s Independent Study Program.
Güliz Saglam (?, Instanbul, Turchia)
È una regista indipendente e attivista turca, i suoi documentari si concentrano su questioni sociali come l’immigrazione, lo sfruttamento delle lavoratrici e i movimenti di protesta e resistenza femminista. Saglam ha studiato Scienze Politiche e Pubblica Amministrazione in francese all’Università di Marmara. Prima di dedicarsi esclusivamente alla regia, ha lavorato come assistente alla regia in svariati film e documentari locali e stranieri, oltre ad essere stata una volontaria presso la Cooperativa femminile Filmmor, realtà da cui nasce il suo interesse per queste tematiche.
Documenta le campagne e le manifestazioni dei movimenti femministi e le iniziative delle donne per la pace. Inoltre, è coinvolta nell’organizzazione dei Documentarist Istanbul Documentary Days e fa parte di diversi collettivi video-attivisti. I suoi lungometraggi sono stati proiettati in occasione di diversi festival cinematografici internazionali. Il suo primo film documentario, A Dream School in the Steppes, ha ricevuto numerosi premi, tra cui il premio per il miglior documentario del 47° Film Critics Association of Turkey, il 9° Boston Turkish Documentary and Short Film Competition e il 7° Documentarist Istanbul Documentary Days FIPRESCI Award.
Güliz Saglam ha recentemente ampliato la sua attività promuovendo incontri e iniziative volte a discutere le difficoltà affrontate delle professioniste con identità femminile e dalle persone non binarie nell’industria cinematografia e audiovisiva. La regista intende infrangere gli atteggiamenti patriarcali che tutt’oggi permeano il settore e avanzare proposte di miglioramento, creando una rete di sostegno e scambio che attraversi tutta l’Europa, dal confine orientale a quello occidentale.
(schede a cura di Francesca Calzà)
La prossima puntata la trovate qua: Speciale Artisti Biennale 2024 (pt. 7)