È un incontro di anime, quello tra Carla Accardi e Carla Lonzi, negli anni Sessanta. Una di quelle grandi storie destinate a durare troppo poco ma, nella deflagrazione, a cambiare il mondo. La prima è già un’artista affermata. Ed essere un’artista (con l’apostrofo) affermata negli anni Sessanta in Italia, in un ambiente per cui la definizione “patriarcale” è fin troppo delicata, non è cosa da poco. La sua carriera – oggi raccontata egregiamente dall’imponente antologica a Palazzo delle Esposizioni, a Roma (Carla Accardi, a cura di Daniela Lancioni e Paola Bonani, fino al 9 giugno 2024), in occasione del centenario dalla nascita – è cominciata con un figurativo pastoso, interessante, intenso, ma poi lei ha trovato una strada che sente più sua nell’astratto del Gruppo Forma 1. I fondatori – tra cui lei: unica donna – si proclamano “formalisti e marxisti”. È nato lì il segno diventato poi la sua firma: aggrovigliato, prima, e poi sempre più scandito in sinuosi alfabeti sconosciuti. Ed è con il suo segno forte che approda alla Biennale di Venezia del 1964, per cui l’altra Carla – Lonzi – le scriverà una presentazione.
Carla Lonzi è una critica d’arte sui generis, interessata più che mai a sfondare la superficie dell’opera per rintracciarvi i moti dell’anima di chi l’ha creata. Il suo Autoritratto, del 1969, è uno dei testi chiave della critica d’arte contemporanea proprio per il suo essere completamente diverso da tutti gli altri scritti sull’arte contemporanea: ogni ritratto d’artista, infatti, esce come un autoritratto da chiacchiere, dialoghi, visite in studio. L’anima di chi crea si rivela di un’importanza basilare, lì, per comprenderne il lavoro. Carla Accardi è l’unica donna che vi appare. Il sodalizio tra le due si fa sempre più forte.
Se Accardi è rimasta in qualche modo affascinata dai colleghi americani che hanno fatto da mattatori nella XXXII Biennale a cui anche lei ha partecipato, il rigoroso metodo pittorico che ha scelto rimane, nella sua evoluzione, fedele a se stesso. Anche se l’ingresso del sicofoil (materiale plastico trasparente) come supporto aggiunge leggerezza al lavoro. La pittura made in Usa, del resto, ha una connotazione di machismo che non può lasciare indifferente l’artista, che dirà: “voglio che ci sia questo problema, donna-uomo, e basta. Un giorno uno mi dice ‘non c’è, tanto’. No, no, no… io la mattina dopo mi rialzo e il problema c’è, perché una donna deve sempre tenere presente il fatto che sta lottando per poter godere di una parte di felicità”. Lei lo sa bene che cosa significa svegliarsi ogni mattina donna in un mondo in cui la prima cosa che devi fare è scusarti se, nonostante il tuo sesso, hai deciso di fare l’artista.
È questo il terreno su cui Carla e Carla fatalmente si incontrano: arte e femminismo devono intrecciarsi. Perché l’arte, quella ufficiale, fino a questo momento non ha accolto le donne con le stesse modalità con cui ha dato spazio agli uomini. Grazie a loro due, e alla giornalista e scrittrice Elvira Banotti, nasce nel 1970 a Roma “Rivolta Femminile“, uno dei primi gruppi femministi italiani, basato sul separatismo e sull’autocoscienza e completato da una casa editrice. Accanto all’indagine sull’influenza delle dinamiche sociali nelle diseguaglianze di genere, l’arte è centrale nella loro riflessione. Quello che Lonzi e Accardi sottolineano, in particolare proprio riguardo l’arte, è il disagio che provano nel doversi esprimere all’interno di linguaggi creati dall’uomo e per l’uomo (solo un anno dopo Linda Nochlin pubblicherà il saggio Perché non ci sono state grandi artiste, evidenziando come la mancanza di possibilità di studiare, di formarsi e di crescere professionalmente in un ambiente ostile – perché creato per altri – sia il motivo di una mancanza di figure femminili nodali nel mondo dell’arte).
La ricerca di una risposta a quel disagio, però, finisce per separare le due sodali. Lonzi arriverà a negare completamente il sistema dell’arte, vaticinando un utopistico mondo nel quale le distinzioni tra artista, curatore e fruitore siano annullate a favore di una creatività diffusa e totalmente svincolata dalle logiche di mercato. Un rifiuto del sistema, tuttavia, che inevitabilmente si traduce in un rifiuto delle artiste stesse e del loro lavoro. Accardi non può accettare questa logica: dipingere per lei è vitale. Il suo persistere in quell’attività è per Lonzi un tradimento, un compromesso con il patriarcato, e la rottura diventa inevitabile. Nel 1976 Accardi ritroverà un gruppo di “sorellanza” nella Cooperativa Beato Angelico. Intanto la sua arte continua a crescere, a germinare in quella scrittura calda e sinuosa, sempre più evidenziata nel contrasto dei colori accesi, smaltati, e sempre più invasiva nelle tele grandi, grandissime. Mentre le tende inventano spazi intimi, inviolabili, quelli del pensiero e dell’anima.
Quelli di Accardi si rivelano, alla fine, messaggi cifrati che danzano nello spazio e che sotto l’astrazione raccontano, riga dopo riga, una storia di presa di coscienza del sé. Perché anche lì, nel segno scandito sulla tela, Accardi in realtà ci racconta cosa significhi essere donna in un mondo di uomini. Lo dice Michel Tapié annoverandola nell’ “art autre”, e lo dice anche Germano Celant, sostenendo che la separazione netta dei segni dallo sfondo si può leggere proprio come l’affermazione del distaccamento da un contrario, come una dichiarazione di individualità.