Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere. Il Padiglione Italia di Massimo Bartolini in Biennale non è solo del tutto inadatto a rappresentare l’arte italiana nel mondo: è forse l’ultimo baluardo di una concezione dell’arte che fa venire il latte alle ginocchia, dove non c’è nulla da vedere, su cui non c’è nulla da scrivere, del quale non c’è nulla da pensare né da commentare. Per un semplice motivo: che non c’è appunto nulla, se non la tautologica ripetizione di un non-concetto: che l’arte, per Bartolini, geometra inopinatamente prestato all’arte (così come il suo predecessore, Gianmaria Tosatti, non è altro che un critico teatrale che ha confuso l’arte col suo mero impianto scenografico), è tutta nel “progetto”: “Dove c’è costruzione c’è forma e la forma è presenza totale. Per questo non sono possibili esitazioni. Le esitazioni hanno comunque un loro posto: il progetto. Se al progettista spetta il mondo dell’immaginazione e poi quello della ponderazione, al realizzatore spetta quello apparentemente umile e univoco della materia. Nella sua mano il talento e la sensibilità sono archetipici e non permettono bugie”.
Sotto il vestito di vuote parole un po’ pompose (come accade spesso quando bisogna coprire il vuoto di contenuti e d’immaginazione), appunto, il nulla cosmico. E nulla c’è da vedere anche all’immenso, e di nuovo eccessivamente costoso – 800mila euro di fondi ministeriali e 400mila da sponsorizzazioni: per realizzare cosa, poi? –, Padiglione Italia di questa, per altri versi ricca e articolata, Biennale Arte 2024: null’altro che un complesso di tubi innocenti, come se ne possono trovare in un qualsiasi, triste, malinconico, cantiere edile mai finito. Come in quelle migliaia, anzi decine di migliaia, di cantieri aperti e mai chiusi, in Italia, in seguito alla pioggia di bonus offerti da un governo incapace di far altro che spalmare a piene mani politica securitaria e soldi dove capita (ma nelle tasche dei lavoratori mai, ça va san dire).
È triste, a volte, dire “noi l’avevamo detto”: ma purtroppo, a volte, è necessario. “Nel lavoro di Bartolini c’è sempre una forte presenza del linguaggio tecnico, e di tecnici specializzati: carpentieri, elettricisti, geometri, ingegneri”, scrivevamo nel nostro articolo del 31 ottobre scorso, quando fu annunciato il nome di Bartolini come unico rappresentante dell’Italia per la Biennale 2024. “L’attenzione non solo alla filosofia del costruire, ma alla pratica stessa della costruzione (tecnica, materiali, etc.), è infatti rimasta fondamentale nel suo lavoro”. E continuavamo dicendo che il suo è “un inno, più che alla filosofia e alla magia sottese all’abitare, al suo impianto strutturale e tecnico. Se tanto ci dà tanto, al Padiglione Italia, dopo l’immensa fabbrica dismessa di Tosatti, prepariamoci a un immenso cantiere, ‘icona del costruire’. Speriamo, per lo meno, che percezione, stupore e magia abbiano per una volta la meglio sulla mera tecnica”.
Su questa (vana) speranza, dobbiamo confessarlo, ci eravamo illusi, e forse, per una volta, speravamo davvero di poterci illudere. Non diciamo quadri, non diciamo sculture, che Bartolini, povero lui, non sa fare né gli uni né gli altri, pur essendo artista, ma almeno: almeno, che so, un barlume di quella straordinaria vivacità, di quella ricchezza di materiali, di immaginazione, di contenuti, di idee, di progettualità (stavolta, sì, davvero), che si può respirare qua e là tra gli altri padiglioni e nella mostra internazionale di questa edizione della Biennale. E invece.
Massimiliano Tonelli, dominus di “Artribune” (che come giornalista, va detto, rispettiamo e a cui riconosciamo il merito di aver saputo svecchiare il giornalismo d’arte in Italia, togliendolo, in tempi non sospetti, dalle pastoie di una diarchia tra il giornalismo nazional-popolare stile Arte Mondadori e quello iper-fazioso e amicale alla Politi, inventore di Flash Art, che ha fatto il bello e il cattivo tempo per una trentina d’anni nell’arte nazionale e non solo); Tonelli, dunque, che di critica d’arte tuttavia non ha mai, non dico scritto qualcosa di memorabile, ma, che ci risulti, nulla in assoluto, ha ieri incensato, in anticipo su tutti, il Padiglione Italia di quest’anno, definendolo “un sigillo sulla carriera negli anni della pienissima maturità artistica” di Bartolini.
Che sia un sigillo, non lo mettiamo in dubbio. Ma di che cosa? Se è di maturità, forse qualcuno – o lui o noi – ha sbagliato disciplina: da geometra, forse, sì. Un bel “giardino all’italiana”, ma di tubi innocenti, può essere una metafora azzeccata dei tempi tristi e malinconici nei quali viviamo oggi; ma quanto ad arte, poesia, immaginazione, qua dentro vediamo poco o nulla. Non è che un labirinto: un brutto labirinto di tubi innocenti.
È dunque questo, a rappresentare la celebre creatività, la capacità immaginativa e immaginifica degli artisti italiani nel mondo? Mala tempora currunt. Ma, se non vogliamo scomparire del tutto, forse è meglio cambiare rotta, e in fretta.
La strage dei tubi innocenti. Da scenografo direi che poteva diventare una bella (non nuova) installazione lavorando almeno con le luci… o col suono magari