Biennale di Venezia, ecco tutti i Leoni d’oro

Alla fine ha vinto il suo Padiglione, quello dell’Astralia: lui è Archie Moore, artista aborigeno che, nel Padiglione Australia, ha ripercorso, attraverso la storia (e l’albero genealogico) della sua famiglia, il difficile rapporto delle istituzioni del suo paese con la popolazione delle Prime Nazioni, ponendo l’accento sul dramma dell’incarcerazione dei nativi e sulla loro lotta per la giustizia sociale. Noi avevamo già raccontato qualche giorno fa la storia e i “dietro le quinte” di questo padiglione, intitolato “Kith and Kin”, traducibile con “amici e parenti” (Archie Moore, nel Padiglione australiano una genalogia dei Popoli aborigeni. Con rimandi a Isgrò: ma i significati sono opposti), senz’altro uno dei più belli e più intensi di questa edizione della Biennale 20924.

Archie Moore al momento della premiazione del Padiglione Australia

Avevamo anche puntato l’attenzione su una curiosità, ovvero i rimandi stilistici che intercorrevano – nella sistematica “cancellazione” di nomi e dati dei nativi nelle 500 pile di documenti presentati al centro del Padiglione, 500 pile di documenti, principalmente rapporti del coroner e inchieste coloniali sulla morte di indigeni australiani in custodia di polizia –, con il classico lavoro di cancellazione analogamente operato da Emilio Isgrò nel suo lavoro, sottolineando però le profonde differenze dal punto di vista concettuale e di senso che intercorrono tra un lavoro e l’altro. Oggi, ecco la consacrazione di Archie Moore come autore del miglior padiglione della Biennale, quello dell’Australia appunto, vincitore del Leone d’Oro per la Miglior Partecipazione Nazionale. “Così 65.000 anni di storia (sia registrati che perduti) sono incisi sia sulle pareti scure che sul soffitto, chiedendo agli spettatori di riempire gli spazi vuoti e assorbire la fragilità intrinseca di questo triste archivio”, ha detto la giuria nella citazione.

La giuria di quest’anno era presieduta da Julia Bryan-Wilson, curatrice americana e docente di storia dell’arte alla Columbia University, che ha selezionato i vincitori insieme ad altri quattro curatori internazionali: Alia Swastikaan, curatrice e scrittrice indonesiana, direttrice della Biennale Jogja Foundation di Yogyakarta, Indonesia; Chika Okeke-Agulua, curatrice e critica d’arte nigeriana, docente di storia dell’arte e studi afroamericani all’Università di Princeton; Elena Crippa, curatrice italiana responsabile della programmazione alla Whitechapel Gallery di Londra; e María Inés Rodrígueza, curatrice franco-colombiana, direttrice della Fondazione Walter Leblanc di Bruxelles e direttrice artistica di Tropical Papers.

Assieme al Padiglione australiano, la giuria ha premiato con il Leone d’Oro collettivo neozelandese Mataaho, composto da quattro artiste māori (Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau), che all’ingresso delle corderie dell’Arsenale ha esposto una grande installazione, Takapau (realizzato nel 2022), una enorme struttura metallica di cinghie in poliestere, intrecciate e reticolari e con molti rimandi ai tradizionali tessuti māori.

“Riferendosi alle tradizioni matrilineari dei tessuti con la sua culla simile a un grembo, l’installazione è sia una cosmologia che un rifugio. Le dimensioni impressionanti sono un’impresa ingegneristica resa possibile solo dalla forza collettiva e dalla creatività del gruppo”, ha affermato la giuria nella motivazione per il premio, che è stata letta dalla presidente della giuria Julia Bryan-Wilson.

Il terzo premio della giuria, il Leone d’argento, è andato a una giovane artista partecipante alla mostra internazionale, Karimah Ashadu, nata a Londra, cresciuta in Nigeria e ora residente ad Amburgo e Lagos. Alla Biennale presentava un’opera video nella mostra internazionale, Machine boys, incentrata sui mototaxi recentemente vietati a Lagos e sull’impatto del divieto.

“Con un’intimità bruciante, cattura la vulnerabilità di giovani uomini provenienti dal nord agrario della Nigeria, emigrati a Lagos e finiti a bordo di mototaxi illegali. La sua lente femminista è straordinariamente sensibile e intima e cattura l’esperienza subculturale dei motociclisti e la loro precarietà economica”, ha affermato la giuria.

Samia Halaby

Infine, la giuria ha assegnato menzioni speciali all’artista palestinese Samia Halaby, 88 anni, pittrice, educatrice e attivista, e La Chola Poblete, 35 anni, artista queer argentina, anch’essa presente nella mostra internazionale, che riflette sulle sue radici indigene e queer e si oppone alla stereotipizzazione e all’esotizzazione delle popolazioni indigene. L’artista, ha scritto la giuria nelle motivazioni, “si impegna in un gioco critico con le storie di rappresentazione coloniale da una prospettiva trans indigena. La sua arte polivalente – che comprende acquarelli, tessuti e fotografia – resiste all’esotismo delle donne indigene mentre insiste sul potere della sessualità”.

La Chola Poblete

“Spero di aprire altre porte”, ha dichiarato l’artista, “affinché altre persone come me possano conquistare spazi e liberarsi dalle etichette”.

Infine, una menzione speciale alla Repubblica del Kosovo per un’installazione scultorea di Doruntina Kastrati, 33 anni, residente a Pristina. Il lavoro presentato nel Padiglione del Kosovo, The Echoing Silences of Metal and Skin, è un’installazione che esplora l’occupazione femminile precaria nelle industrie leggere del Kosovo dopo la guerra del 1999. L’artista ha creato l’installazione scultorea asata sull’esperienza di dodici operaie di una fabbrica di lokum (caratteristico dolce diffuso dalla Penisola balcanica) a Prizren, offrendo uno sguardo penetrante sulla complessità della condizione femminile nel contesto post-bellico del Paese.

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