Dagli ukiyo-e alla collezione Ragusa, i capolavori d’arte giapponese in mostra a Roma

Con ben 150 capolavori d’arte giapponese la mostra “UKIYOE. Il Mondo Fluttuante. Visioni dal Giappone” (Roma, palazzo Braschi 20/02 – 23/06/2024) pone l’accento su quello che è stato il filone artistico più innovativo dell’epoca Edo (1603 – 1868): l’ukiyo-e. Letteralmente traducibile come “immagini del mondo fluttuante”, questo genere di xilografia su carta di riso nasce e si sviluppa in un lungo periodo di pace segnato da grandi cambiamenti sociali, economici ed artistici, ma anche da un forte isolazionismo.

Per due secoli e mezzo lo shogunato dei Tokugawa chiude le frontiere del Giappone, tutte le navi adatte alla navigazione in alto mare vengono smantellate, un flebile contatto con l’Occidente rimane solo attraverso i rapporti commerciali con gli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali. Un piccolo villaggio di pescatori di nome Edo (“estuario”), la futura Tokyo, diviene sede dello shogunato. In quel nuovo ambiente cittadino, fuori delle rigide gerarchie feudali, fiorisce un  ceto sociale che assomiglia molto alla borghesia mercantile europea.

Utagawa Hiroshige<br>Awa I gorghi di Naruto dalla serie Illustrazioni di luoghi<br>celebri delle sessanta e oltre province<br>1855<br>Silografia policroma<br>355 x 235 cm<br>©Courtesy of Museo dArte Orientale E Chiossone

Il “mondo fluttuante” a cui si ispirano gli ukiyo-e fa riferimento proprio a questa nuova classe, più dinamica e appunto “fluttuante”. È nelle nuove città che il chōnin, il “cittadino” giapponese dotato di gusto per l’arte ma non abbastanza ricco per acquistare un dipinto, comincia a comprare stampe in serie su carta di riso (ukiyo-e), opere d’arte a buon mercato che raccontano il suo mondo, fatto di belle cortigiane, di grossi lottatori di sumo e di attori famosi ( verso la fine dell’epoca Edo diverranno popolari anche i paesaggi, ma non appariranno quasi mai soggetti politici).

Il processo di riapertura delle frontiere giapponesi inizia soltanto nel 1853, con l’arrivo delle “navi nere” dell’ammiraglio Matthew Perry che porta alla Convenzione di Kanagawa tra Stati Uniti d’America e Giappone (1854), ma la riapertura completa dei rapporti si avrà solo a partire dal 1866, con la restaurazione del potere imperiale Meiji.

Katsushika Hokusai<br>Veduta del tramonto presso il ponte Ryōgoku dalla<br>sponda del pontile di Honmaya dalla serie Trentasei<br>vedute del monte Fuji<br>1830 1831 ca<br>Silografia policroma<br>263 x 38 cm<br>©Courtesy of Museo dArte Orientale E Chiossone

Non è dunque un caso se nel 1867, con la presenza del padiglione del Giappone alla prima Esposizione Universale di Parigi, il japonisme  viene consacrato come la nuova moda della Belle Époque. Proprio in quell’anno Claude Monet ritrae la moglie Camille in costume giapponese (“La Japonaise”, 1867) e nel successivo Édouard Manet ritrae l’amico Émile Zola (1868) seduto nel suo studio con le stampe ukiyo-e appese alla parete. Ma già nel 1864, il raffinatissimo pittore americano (anche questo non è un caso vista la Convenzione di Kanagawa del ’54) James Whistler dipinge “Symphony in White n. 2“, raffigurante una donna vestita di bianco che tiene in mano, guarda caso, un ventaglio giapponese.

Gli ukiyo-e cominciano dunque a diffondersi in Europa a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e oggi la più famosa di queste stampe, godibile in mostra, è diventata una emoticon molto amata di whatsapp, si tratta della Grande onda di Kanagawa realizzata dal genio di Katsushika Hokusai nel 1830. L’opera fa parte di una serie di trentasei vedute del Monte Fuji, questo infatti si scorge piccolissimo sotto la grande onda, la cui schiuma sembra neve che cade sulla sua cima bianca.

Katsushika Hokusai<br>La grande onda presso la costa di Kanagawa dalla serie<br>Trentasei vedute del monte Fuji<br>1830 1832 ca<br>Silografia policroma<br>26 x 376 cm<br>©Courtesy of Museo dArte Orientale E Chiossone

Accanto ai dipinti e alle xilografie ukiyo-e, a palazzo Braschi si possono ammirare anche diversi oggetti d’arte applicata collezionati dai primi italiani che si recarono in Giappone a fine Ottocento. Sono degni di nota gli oggetti collezionati da Vincenzo Ragusa. Lo scultore palermitano visse in Giappone per ben sei anni (dal 1876 al 1882) e durante il suo lungo soggiorno collezionò più di 4000 oggetti (per l’esattezza circa 4172 pezzi appartenenti per lo più al periodo Edo tra cui dipinti, ukiyo-e, lacche, statue bronzee, armi, vasi in bronzo e ceramica, strumenti musicali, maschere teatrali, abiti e oggetti di uso quotidiano) che costituiscono una raccolta unica nel suo genere, capace di offrire una visione d’insieme dell’artigianato artistico giapponese di epoca Edo e non solo. 

Vincenzo Ragusa è uno dei protagonisti indiscussi del processo di riapertura e di interscambio culturale tra l’Italia e il Giappone. Egli fa parte del primo corpo di insegnanti e consulenti selezionati dal governo Meiji per partecipare alla fondazione della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo dove si reca per insegnare ai giapponesi le tecniche europee di scultura, modellato e fusione del bronzo. Nel 1878 scolpisce uno splendido busto che ritrae una sua giovane allieva, la diciassettenne O’Tama Kiyohara, prima donna giapponese a posare per un artista europeo che diventerà successivamente sua moglie.

Liuto a tre corde, sanshin (o jabisen) di Okinawa Periodo Edo (XVIII-XIX secolo) Legno, pelle di rettile, seta 77 x 19 x 8,4 cm ©Museo delle Civiltà, Collezione Vincenzo Ragusa

O’Tama è una pittrice talentuosa e tra il 1877 e il 1882 realizza oltre cento tavole acquerellate – oggi conservate in parte presso l’Istituto Statale d’Arte di Palermo (intitolato ai coniugi Ragusa) e in parte presso l’Art Research Institute di Tokyo – che raffiguravano con impressionante realismo gli oggetti della preziosa collezione del suo maestro. Queste cento tavole prodigiose avevano un duplice scopo: da una parte la giovane e dotata pittrice è indotta a confrontarsi con la tecnica occidentale della ‘riproduzione dal vero’; dall’altra probabilmente Ragusa ha già in mente la catalogazione illustrata della sua raccolta, tanto è vero che sul verso di ogni tavola si premura di scrivere un’annotazione riguardante gli oggetti rappresentati.

Set composto di scatola per cancelleria ryōshibako e scatola da scrittura suzuribako contenente pietra in ardesia per la preparazione dellinchiostro coltellino e pennello decorazione con motivo esterno di stemma difamiglia a paulownia e interno con coppia di gru in volo e corso dacqua con piante lacustri<br>Periodo Edo XVIII XIX secolo<br>Legno laccato nero e decorazione dorata makie<br>allesterno lacca marrone con polvere doro nashiji<br>allinterno pigmento rosso e nero<br>425 x 327 x 17 cm<br>©Museo delle Civiltà Collezione Vincenzo Ragusa

Nell’agosto del 1882 Vincenzo Ragusa rientra in Italia portando con sé la giovane pittrice Kiyohara, sua sorella Chiyo, ricamatrice, il marito di quest’ultima, Einosuke, decoratore di oggetti in lacca, e centodieci casse in cui è contenuta la collezione raccolta durante il suo soggiorno. Questa volta il progetto consiste nel fondare una scuola di arti applicate dove si insegnino le tecniche artistiche giapponesi e con annesso un museo che contenga la sua collezione.

Nel 1883 Ragusa inaugura a Palermo il museo giapponese e l’anno dopo la Scuola-officina di Arti Orientali, di cui O’Tama dirige la sezione femminile. Ma già nel 1887 la scuola diventa Real Scuola Superiore d’Arte Industriale, e vi si non insegnano più solo le tecniche giapponesi. Purtroppo l’innovativo progetto didattico-museale non viene compreso e accettato fino in fondo dai contemporanei del Ragusa e il suo temperamento «ardente e bizzarro» (così viene definito) fa nascere diversi attriti che portano a liti, dimissioni e financo ispezioni ministeriali. 

Set per il gioco delle carte delle poesie (utagaruta) Periodo Edo (XIX secolo) Legno, lacca, carta, seta, pigmenti, avorio ©Museo delle Civiltà, Collezione Vincenzo Ragusa

Se da un lato Vincenzo Ragusa aveva sopravvalutato l’entità della domanda di mercato di prodotti orientali, dall’altro il suo progetto è era troppo innovativo per un paese nazionalista come l’Italia post unitaria. 

Il fallimento del progetto didattico – museale comporta la dispersione e la vendita del ricchissimo patrimonio di reperti orientali. Già nel 1888 una parte considerevole della raccolta viene acquistata dallo Stato Italiano per rimpinguare il Museo Etnografico Pigorini di Roma. Da allora inizia una trattativa per la vendita della restante parte che si conclude solo nel 1916. È allora che Ragusa scrive al Ministro della Pubblica Istruzione chiedendogli di pubblicare quantomeno un catalogo, “opera indispensabile che potrà illuminare e facilitare gli studiosi delle arti e delle industrie cinesi e giapponesi.”.

Ebbene, questo catalogo ancora oggi non è stato pubblicato. Bisognerebbe dunque andare a palazzo Braschi per vedere con i propri occhi, oltre alle meravigliose xilografie ukiyo-e, gli splendidi oggetti collezionati dal grande Vincenzo Ragusa, grande artista e professore dal temperamento «ardente e bizzarro», ma sol perché animato da grandi ideali.

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