Giovanni Gasparro, un drappellone davvero sacro per il Palio, contro l’iconoclastia dell’arte

Giovanni Gasparro ha realizzato il “cencio”, o Drappellone, del Palio di Siena dedicato alla Madonna di Provenzano, vinto dalla contrada dell’Onda e celebrato lo scorso 4 luglio (la data per tradizione è il 2 luglio, ma quest’anno, causa Giove Pluvio, è stato rinviato).

Realizzare il Drappellone per il Palio di Siena è un onore che spetta a pochi e di cui quei pochi possono essere ben orgogliosi, perché si tratta di una delle manifestazioni più antiche e affascinanti d’Italia, un evento che unisce storia, tradizione e passione, laicismo e cristianità, mondanità e sacralità, in una corsa di cavalli unica al mondo. 

Il Palio di Siena si tiene due volte l’anno nella Piazza del Campo, il 2 luglio appunto, in onore della Madonna di Provenzano e il 16 agosto in onore della Madonna Assunta. Di per sé la manifestazione nasce da antiche feste di origine pagana che celebravano l’arrivo dell’estate e solo poi, con la cristianizzazione in atto, si è trasformato in una celebrazione religiosa. Il Palio di Provenzano è il primo dei due Palii annuali e la sua storia è legata alla Madonna di Provenzano, un busto in terracotta che rappresenta la Vergine, patrona di Siena e venerata nell’omonima chiesa perché legata a fatti prodigiosi. La corsa del 2 luglio è un evento carico di significato religioso e storico, celebrato con una messa solenne e una processione che precedono la gara. Il cencio o Drappellone di cui sopra è un vessillo dipinto che viene assegnato alla contrada vincitrice (Siena è suddivisa in 17 contrade, veri e propri microcosmi sociali e culturali, ognuna con i propri colori, stemmi e territori): quello del Palio di Provenzano, realizzato quest’anno da Gasparro, è sempre dedicato alla Madonna di Provenzano.

Molte celebrities hanno avuto l’onore di dipingere il Drappellone, soprattutto per il Palio del 16 agosto, ricordiamo fra i tanti Guttuso, Sassu, Adami, Vespignani, Fiume, Tommasi Ferroni, Cassinari, Paladino, Chia, Clemente, Pericoli, Mitoraj, Lodola, tra ovazioni e polemiche, come nel caso di Milo Manara, che aveva dipinto il Drappellone dell’edizione 2019: “Maria costretta a posare per l’osceno Manara“, titolava un articolo di Gianni Lupi sul magazine online La Nuova Bussola Quotidiana, che proseguiva chiedendosi retoricamente: “era opportuno legare il drappellone che deve raffigurare la Vergine Assunta a un “artista” che ha legato la sua produzione a immagini femminili spesso sconce?”.

Ma, ammesso e non concesso che nel corso degli anni l’arte sacra fosse un po’ uscita dai radar del Palio di Siena (se valesse il ragionamento con cui si è stroncata l’opera di Manara, allora dovremmo condannare il Caravaggio, che pare avesse usato come modella una prostituta affogata nel Tevere per dipingere La morte della Vergine), con Giovanni Gasparro è tornata alla grande: il suo Drappellone è il manto stesso della Vergine, di colore bianco-azzurro a indicare la dimensione extra fenomenica, in contrasto con i toni scuri del paggio al suo lato, che invece denota l’ambito terrestre, proprio lì dove la Vergine orienta i suoi occhi, verso i fedeli e Siena, con gli stemmi delle contrade in oro, come nella banda di seta in cima al drappellone per celebrare gli ottant’anni dalla Liberazione di Siena (3 luglio 1944).

Nel 2024 non necessariamente l’arte sacra deve raffigurare i personaggi dei testi sacri, limitando il campo alla religione cristiana: se un artista pone uno stilo in verticale all’interno di un white cube e riesce a convincerci, lui insieme al gallerista e al critico di riferimento, che quella che abbiamo davanti è arte sacra, allora gli crediamo. Del resto siamo noi stessi a dare il significato all’opera d’arte, ce lo ha insegnato Arthur Danto: una scatola di scarpe resta sempre una scatola di scarpe, ma se ti chiami Gabriel Orozco e sei alla Biennale di Venezia, beh, allora quella scatola di scarpe è un’opera d’arte. 

Ma è anche vero che l’iconoclastia, cosciente o no, nell’arte contemporanea ha fatto strame della tradizionale raffigurazione del sacro ed è per questo che la produzione d’arte di Giovanni Gasparro appare in tutto lo splendore della sua straordinaria inattualità come le considerazione inattuali di Nietzsche. Noi salutiamo quindi quest’arte in via di apparizione (e che in realtà non è mai scomparsa) come un felice ritorno sulle scene, a dispetto dei bastoni appoggiati soli soletti alla parete negli stand delle fiere chic che piacciono ai cazzari dell’arte, quelli che seguono il dress code per intonarsi all’ambiente.

Intanto il Drappellone di Giovanni Gasparro verrà musealizzato e andrà ad arricchire il museo della Contrada vincitrice insieme a quelli realizzati dai suoi predecessori, dopo un tributo di popolo, nel Cortile del Podestà di Palazzo Pubblico in piazza del Campo, che nelle gallerie e fondazioni fighette della Milano di Sala te lo scordi.

Ma come si arriva a tributare con la propria opera artistica un evento di cultura nazionale dove il sacro e il profano si incontrano e si sposano? Ne abbiamo parlato con l’artista.

Giovanni Gasparro

Giovanni, come sei arrivato fin qui?

La nomina è di competenza del sindaco (Nicoletta Fabio. n.d.r.), che mi ha chiamato qualche mese fa. E’ un lavoro  estremamente codificato, non può essere il risultato di una totale improvvisazione e ispirazione artistica, ci sono delle parti che vanno studiate.

E quali sono questi “paletti” da rispettare?

Il pittore del Palio di luglio, a differenza di quello d’agosto, deve dipingere la Madonna di Provenzano, perché il Palio di luglio è dedicato a Lei. Inoltre  va considerata la presenza di tutti gli stemmi, da quelli delle dieci Contrade che corrono il Palio di luglio a quelli dei tre Terzi della città (Terzo di San Martino, Terzo di Camollia e Terzo di Città, ndr), in una selva di stemmi. Inserire tutto questo in un contesto verticalizzato non è stato facile. Per tradizione il drappellone viene dipinto su seta dal ‘600 e io sono andato a studiarmi gli esemplari del tempo. Ed è sempre una seta dipinta.

Questa tua opera la potremo comunque rivedere nel museo della contrada vincitrice, giusto?

Sì, viene musealizzata. Tutte e 17 le contrade hanno il loro museo.

Cosa provi adesso?

Già prima percepivo il grande valore della commissione e sapevo cosa significasse il drappellone. Da subito ne ho percepito l’importanza: è un dipinto che vive nel contesto, non è solo un dipinto da appendere al muro. Ha una sua vita all’interno delle dinamiche del Palio. È stata un’emozione incredibile, credo non paragonabile a nulla di affine in termini artistici.

Insomma, tutt’altro che una personale in una galleria o in un museo…

Sì, perché il dipinto viene letteralmente svelato in una vera e propria cerimonia, con tutte la città che si riversa in strada insieme alle più alte cariche militari, civili, religiose. Lì viene tributato l’applauso, oppure fischi sonori, in un diretto confronto con il fruitore.

E qualcuno ti ha fischiato?

Io ho sentito soltanto un applauso fragoroso, il sindaco mi ha detto che da moltissimi anni non sentivano un applauso così forte.

Vorresti che anche alle mostre nelle gallerie o nei musei ci fosse il pubblico che applaude o fischia come al cinema o a teatro?

Sarebbe impossibile riproporlo, neanche in termini minimali.

Tiziano ne L’amor sacro e l’amor profano dipinge la Venere sacra ignuda e la Venere terrena vestitissima: cos’è il sacro per te, in àmbito pittorico?

Da pittore cattolico identifico la pittura sacra come quella concepita per il luogo di culto, quindi con una funzione ben precisa nel contesto, per l’appunto, cultuale e liturgico. Pertanto va differenziata da quella di vaga ispirazione religiosa, che può anche avere riferimenti alle Sacre Scritture o ad episodi vetero e neo testamentari, ma che non possiede le caratteristiche che la rendono adatta alla sua funzione catechetica e devozionale.

Se qualcuno definisse “arte sacra” la tua pittura, cosa gli diresti? 

Direi che per la gran parte la mia produzione pittorica è tecnicamente definibile come sacra, nell’accezione appena enucleata. Ma dipingo anche altri soggetti ed opere semplicemente ispirati dai temi del Cristianesimo o persino opere di soggetto profano. Non tutto quello che dipingo è sacro.

Cosa pensi dell’arte aniconica?

L’arte aniconica mi suscita disinteresse, se non addirittura totale avversione. Nei contesti museali può avere una qualche forma di velleità comunicativa, a me ignota, soprattutto se per aniconismo intendiamo l’astrazione del XX secolo. In ambito sacro è persino improponibile perché, negando la figura umana, impedisce totalmente la narrazione dei temi evangelici. Così perde la sua funzione catechetica e devozionale. Questo la Chiesa Cattolica lo ha sempre insegnato attraverso la straordinaria multiformità delle arti figurative sacre occidentali, in netta opposizione rispetto alle sette protestanti che mutuavano l’aniconismo ebraico, proprio anche dell’Islam. L’arte occidentale ha un debito totale verso il Cattolicesimo.  

L’arte ci aiuta a vedere il Bello anche là dove non te l’aspetti:  secondo te il Concilio Vaticano II ha impoverito l’estetica della liturgia o l’ha democratizzata?

(lo aprì Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962 e lo chiuse Paolo VI l’8 dicembre 1965. La messa come è oggi viene da lì, prima di allora veniva celebrata in latino, il sacerdote volgeva le spalle ai fedeli e nessuno si azzardava a canterellare con le chitarre durante la celebrazione, diciamo che la messa pre-conciliare esteticamente manteneva intatti il mistero e la sacralità, ndr)  

I documenti del Concilio Vaticano II trattano in modo molto vago delle materie artistiche e con diverse ambiguità. Pertanto è stato facile sovvertire le istanze della Tradizione e di riflesso della figurazione, a scapito dell’aniconismo, nella stagione post conciliare, con un’accelerata disastrosa dopo la riforma liturgica di Paolo VI. Quello che anche un osservatore poco esperto può registrare è il panorama desolante dell’architettura, dell’arte e della musica sacra, nata nella stagione che ha seguito il tanto decantato Concilio. Oggi, con occhi meno ideologizzati, credo lo riconoscano in molti. Ovunque, invece, c’è una riscoperta della liturgia tridentina (in latino) e, in parallelo, si rivalutano le forme artistiche tradizionali, dai paramenti ai vasi sacri e tutte le arti applicate, sino alla pittura e alla scultura.  

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