Al Museo d’Arte contemporanea Donnaregina, la mostra Vai, vai Saudade curata da Cristiano Raimondi, rende omaggio dal 4 luglio al 30 settembre 2024, al lavoro di 52 artisti brasiliani o trapiantati in Brasile, con l’esposizione di ben 194 opere.
Una raccolta enorme di tecniche e stili, che attraversa tutto il Novecento dell’arte carioca, in 14 stanze tra pian terreno e l’intero secondo piano dell’edificio, per un percorso denso della durata di circa due ore.
Vai, vai Saudade è il titolo di una samba composta da Heitor dos Prazes, che accompagna in sottofondo tutta la prima metà dell’esposizione, perché il sonoro è parte dell’allestimento della stanza n° 5 e si diffonde durante la visita delle altre stanze. Almeno fino alla 7 in cui un altro sonoro cattura a distanza l’attenzione, la melodia camuffata e in sordina dell’inno brasiliano proveniente dalla stanza 8. Le componenti sonore coinvolgono il fruitore, rivelando quello che è un immaginario diffuso, romanzato, condiviso, sul Brasile.
Cromie, musicalità, innato senso del ritmo e ostentata allegria, si intrecciano con il malessere sociale degli abusi umani che modificano habitat naturali, classi politiche corrotte, distratte dal consumismo e dal capitalismo e l’inevitabile divisione sociale derivante dal degrado contemporaneo. Questo insieme di contrasti fanno del Brasile un territorio di confronto attivo, un luogo culturalmente fertile.
Dalla fine della schiavitù, abrogata soltanto nel 1888, alle immigrazioni di massa da altri paesi, sino al bolsonarismo, il Brasile ha vissuto tra positivismo e democrazia, dittatura e censura, frustrazione e speranza.
Un territorio che accoglie la multiculturalità, aperto alle rivoluzioni artistiche, alla fusione dei linguaggi, vivendo la sua storia parallelamente a quella occidentale e con grande orgoglio e identità.
Il legame con l’ambiente, di basilare importanza, si rivela nella poesia che introduce alla prima sala, Poema di Willys de Castro, un chiaro inno alla Terra.
Nella prima sala colpisce il ciclo di disegni Via Sacra na Amazonia di Hèlio Melo del 1990, in cui l’artista raffigura Gesù Cristo nelle vesti di seriguiero (estrattore di gomma), che si fa martire dell’umana distruzione e sfruttamento di un habitat, l’Amazzonia, tramite l’estrazione del lattice dagli alberi della gomma.
Il ciclo si conclude con la crocefissione del Messia su un albero già evidentemente sfruttato e, di conseguenza, la sua ascesa nel regno dei cieli, sovrasta la foresta, non si capisce se per difendere il luogo o se per proteggerne la conveniente fertilità nella produzione della gomma.
Nella seconda sala, la scultura in bronzo, Saudade del 1945 di Maria Martins, artista che ha vissuto per lungo tempo in Europa, apre ad un più definito confronto con le avanguardie occidentali.
Lo steso fa la tela astratta di Tomie Ohtake del 1984, un flusso cromatico su fondo nero che richiama i colori del Brasile con uno stile informale minimale e armonico. Il resto della stanza omaggia l’arte neoconcreta brasiliana del 59, con al centro la rappresentativa scultura in alluminio, Bicho desfolhado di Lygia Clark. La terza sala, con una bellissima moquette blu cobalto, apre ad una riflessione sulla poetica dell’oggetto in senso New Dada.
Il cestino con la frutta, Cestinha di Ana Prata del 2020, è simile ad alcuni lavori fatti da Concetto Pozzati in Italia fino agli inizi del 2000, con l’oggetto al centro della scena, elemento metafisico che fa da vettore temporale, con accese cromie materiche che aggettano dalla superficie.
Nella stessa stanza la diametralmente opposta piattezza geometrica, ripetitiva e malinconica dei dipinti di Eleonore Koch, artista di San Paolo, ebrea ed originaria di Berlino. Oltre all’apparente schematicità dei suoi lavori, Raimondi suggerisce di considerare la bellezza delle tempere tradizionali, quelle occidentali che in Brasile non esistevano, importata da artisti europei come la Koch, attraverso la propria esperienza migratoria.
Nel caso della Koch, così come nella Ohtake, il concetto di Saudade recupera quel senso di malinconia per le proprie origini, i loro stili indissolubilmente legati alla loro provenienza. Nella stanza 4, i Totem di Niobe Xandò del 1960, evocano l’aspetto tribale del Brasile, oggetti primitivi in legno dipinto grossolanamente. Il tribalismo sottende il percorso, lo ritroviamo spesso attraversando le sale, come nel caso di alcune maschere ed altri totem di Angaldo dos Santos e Conceição dos Bugres della sala 9.
Questo aspetto tribale evidenzia quel retaggio culturale primitivo, che sembra rimanere impigliato nelle trame dell’illusione evolutiva, imposta dal consumismo, tra disboscamento selvaggio e irruzioni della tecnologia.
La sala n° 5, che dà il nome alla mostra, ricorda i toni accesi rossi e ciano di una casa coloniale. L’ipnotica sonorità della samba di Heitor dos Prazes, Vai, vai Saudade e le sue tele esposte, piene di ritmo nostalgico, raccontano il sentimento delle popolazioni africane schiavizzate dai coloni portoghesi. Andando oltre, si incontra il racconto di un Brasile contemporaneo, in cui la storia della tratta degli schiavi ha portato con l’avanzare del tempo a marginalizzazione, morte e degrado.
Rappresentativo in questo senso è Rovina Modernista di Adriana Varejão, in cui un frammento di muro, residuo di un rudere periferico e abbandonato, mette a nudo nella sezione della propria spaccatura da demolizione la materia organica, carne viva. Così come estremamente rappresentativo del vissuto contemporaneo è il video inquietante di Jhony Aguiar, Hino, proiettato su uno schermo nella sala 8a.
Un’inquadratura stretta riprende una bocca costretta ad intonare l’inno brasiliano, con la canna di una pistola stretta tra le labbra. Quanta denuncia in questa immagine così forte, in questo sonoro così teso. Eccole le favelas, luoghi in cui non arriva niente di buono, solo repressione.
Giovani vite costrette alla delinquenza e alla violenza della polizia. L’inno nazionale diventa una tortura, segno di appartenenza nazionale che però non rappresenta le classi povere ed emarginate.
Di conseguenza l’opera di Cildo Meireles, In-mensa, nella sala successiva, in cui piccoli tavoli si uniscono nello sforzo di sostenere un tavolo più grande e una scalinata di sedie, dalla più piccola alla più grande, portano fino al vertice, sembra essere più un’esortazione alla cooperazione per raggiungere aggredire il potere, anziché la rappresentazione di una scala gerarchica.
La sala 8c deride giustamente l’esaltato nazista Bolsonaro che, con le sue politiche di emarginazione sociale, di deforestazione dell’Amazzonia, la pessima gestione della pandemia che ha causato migliaia di decessi e gravi problemi sanitari, nonché la sua ineleggibilità dichiarata dal Tribunale a giugno 2023 per abuso di potere politico e uso improprio dei media, ha subito un vero e proprio effetto boomerang, visto che non potrà presentarsi in politica fino al 2030.
La scelta del curatore di mettere al centro della stanza un grosso e pesante Boomerang del 1985 di Ivens Maschado in cemento e vetro, in prossimità della tela iper-cromatica ed iconica di Ana Prata del 2021 Fora Bolsonaro, appare corretta e poco casuale. Nelle sale successive, simbologie archetipiche tribali, stili grafici tipici tradizionali, si susseguono.
In questo percorso appaiono degne di più che una menzione le sale 11a e 11b, dove si omaggia il Movimento Armorial e il lavoro di un grande artista totale come Ariano Suassuna.
L’intenzione del movimento nato nel 1970 era quella di cercare nella cultura sertanejo, quindi nella ricerca etnica del folklore, gli elementi per un’arte totale, tra musica, teatro, scrittura e arti figurative.
Questo tipo di lavoro ricorda alcuni artisti contemporanei nostrani, uno su tutti il lucano Mauro Bubbico, con le sue grafiche innovatrici che nel folklore cercano l’ispirazione per raccontare la verità, una verità deformata dai miti, dalle leggende e dai simboli, esattamente come in Iluminogravura di Sausanna del 1980.
L’ultima sala del secondo piano accoglie un interessante lavoro grafico di stampa minerale su carta della serie It was Amazon di Jaider Esbell, in cui i segni semplici, quasi infantili ma molto chiari e ordinari, descrivono con con grande efficacia drammatica la decadenza dell’Amazzonia, il suo sfruttamento, la distruzione di ettari di foresta, il degrado umano importato in quelle zone per avvelenare le culture autoctone con l’alcolismo ed altri trucchi come l’illusione del progresso che ha distrutto l’habitat.
La sala conclusiva, posta a pian terreno, la 14 chiude il tour con il lavoro di Ana Mazzei ed un’installazione che richiama lo spettatore alla contemplazione di uno spettacolo muto. In scena una serie di strutture metalliche verticali, che non emettono alcun suono, ma che sembrano osservare chi osserva. Nella stessa sala l’opera del collettivo Opavivarà!, Flora treme, due strutture con pentole, cucchiai, forchette, batticarne che richiamano inevitabilmente il cacerolazo, la manifestazione di protesta pacifica, tipica dei paesi latini del Sud America, tramite l’utilizzo rumoroso di oggetti di cucina, che nel 2019 coinvolse tutto il paese contro il fascista Bolsonaro.
Quello in Vai, vai Saudade è un viaggio molto forte, ricco di spessore politico, sociale e senso della storia. Ciò che viene fuori del popolo brasiliano, guardando le 194 opere esposte, è l’attaccamento indissolubile al territorio e alla salvaguardia della propria identità, che consiste nelle moltitudini culturali che in questo territorio, nel corso dei secoli, si sono incrociate, sovrapposte e affiancate, imparando a convivere nel mezzo di forte sentimento di malinconia e un forte sentimento di speranza, semplicemente la saudade.