Dopo l’interludio televisivo con Mercoledì, l’ultima fatica di Tim Burton era stata il remake di Dumbo, un’opera imperfetta ma in grado di offrirci un doloroso autoritratto del regista. In quel film, l’elefantino dai poteri straordinari veniva sfruttato da un antagonista che non poteva non richiamare alla mente lo stesso Walt Disney, fondatore della casa che produceva il progetto. Ecco che Burton rifletteva, ancora una volta, sulle dinamiche della sua stessa carriera, come ha fatto sin dai primi passi nel mondo del cinema. Ora, con Beetlejuice Beetlejuice, seguito dell’iconico Beetlejuice – Spiritello porcello, Burton torna alle origini, aprendo la 81ª Mostra del Cinema di Venezia.
Certo, i più scettici hanno inizialmente bollato questa scelta come l’ennesimo passo verso una progressiva involuzione artistica, accusando il regista di adagiarsi su remake e seguiti. Ma è bastata la proiezione al Lido per spazzare via ogni dubbio.
Burton, in forma smagliante, ritorna a raccontarci un aldilà caotico e tenebroso, allo stesso tempo irresistibilmente vivace e grottesco. Sebbene il tocco possa sembrare meno brillante rispetto ai suoi anni migliori, Beetlejuice Beetlejuice recupera appieno l’essenza del suo inconfondibile immaginario: un’estetica gotica intrecciata alle contraddizioni del presente. Emblematica, in tal senso, la scena applaudita dalla Sala Darsena, dove un gruppo di influencer finisce letteralmente distrutto dai propri telefoni, in un’ironica allegoria dei tempi moderni.
Dopo 36 anni dai bizzarri eventi del primo film, ritroviamo Lydia Deetz, sempre interpretata da una magnetica Winona Ryder. Ora conduttrice di uno show televisivo sul paranormale, Lydia deve fronteggiare una vita frammentata: un rapporto burrascoso con la figlia Astrid (Jenna Ortega), una relazione instabile con Rory (Justin Theroux) e, come se non bastasse, la notizia della morte del padre Charles. Questo la costringe a tornare nei luoghi che hanno segnato la sua giovinezza, insieme ad Astrid e alla matrigna Delia (Catherine O’Hara).
Ma un errore fatale risveglia nuovamente Beetlejuice (un esplosivo Michael Keaton), con cui Lydia è costretta a stringere un patto per proteggere la figlia. Tuttavia, anche il demone ha i suoi guai: sulle sue tracce c’è Delores, la sua irascibile ex moglie interpretata da Monica Bellucci, la quale ha attirato l’attenzione di un detective dell’aldilà, un inquietante Willem Dafoe.
In questo caleidoscopio di creature bizzarre e universi in collisione, Burton riscopre la sua vena più pura. Nonostante il budget considerevole, il film mantiene lo spirito dei B-movie che hanno plasmato l’immaginazione del regista. Ritroviamo i leggendari Vermi delle Sabbie, un aldilà che somiglia più a un caotico ufficio burocratico che a un mondo di orrori, e soprattutto un Michael Keaton in piena forma, capace di incarnare nuovamente il personaggio che lo consacrò. Winona Ryder, una volta l’incarnazione solitaria e ribelle dell’anima stessa di Burton, ora interpreta una Lydia più complessa, divisa fra il peso del passato e l’incertezza del presente, mentre cerca di guidare una figlia che condivide la sua attrazione per l’oscuro.
Come di consueto, Burton infonde se stesso nel film, dedicando perfino un momento, il meno riuscito, al personaggio di Bellucci, sua attuale compagna. Tra i vari rimandi alle famiglie disgregate e alle coppie separate, si scorgono evidenti riferimenti alla fine della sua lunga relazione con Helena Bonham Carter, madre dei suoi figli. Al tempo stesso, il regista non dimentica le sue fonti d’ispirazione, rendendo omaggio a grandi come Mario Bava e utilizzando l’animazione, una sua passione di lunga data, per aggirare l’assenza dell’attore Jeffrey Jones.
Pur con qualche inciampo e personaggi meno incisivi (tra cui quello di Dafoe), Beetlejuice Beetlejuice rappresenta un ritorno ispirato e appassionante per Burton. Il regista, smarrito nei suoi recenti tentativi, torna a esplorare con sapiente leggerezza il contrasto tra generazioni e a deridere il presente con quel suo amaro sarcasmo che non passa inosservato. Un presente sempre più alienato, dove la fantasia che ha salvato Burton dalle tenebre della solitudine sembra soccombere di fronte a un insulso culto dell’apparenza e alla mediocrità dilagante.
In un’epoca cinematografica in cui prevalgono la sicurezza e il rifugio nel passato, Burton ci consegna un seguito sorprendentemente brillante. In bilico tra vita e morte, il film trova un raro equilibrio, celebrando gli eccentrici, gli emarginati e la diversità, opponendosi fieramente alla monotona ricerca di perfezione che ossessiona la nostra società.