Non ho visto un film, sono andato al museo. Per una ragione alla quale non so dare un senso, uscendo dalla sala ho avuto l’impressione di aver passeggiato per due ore, da seduto, in una pinacoteca in cui erano esposte, per l’occasione, opere famosissime o meno, senza una cronologia specifica, senza una separazione di sale espositive, senza un’impostazione critica che indicasse uno stile o una tendenza artistica. Semplicemente mi sono ritrovato ad osservare dei quadri, molto diversi gli uni dagli altri che, ricomposti nel ricordo, mi hanno dato un’idea più precisa di ciò che effettivamente avevo guardato. Uscivo dall’aver visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Parthenope, di cui molto si parla da quando è arrivato nelle sale e per il quale non ho alcun giudizio critico perché, se esercitato in diretta, sicuramente avrebbe inquinato la mia quasi turistica passeggiata tra opere che nella mia vita ho osservato nei musei, nelle gallerie, o sui libri d’arte. Ne esce un catalogo succinto, sinteticamente ragionato, che è qui di seguito a favore di coloro che il film lo hanno visto – e magari qualcosa di laterale ritrovano nella loro visione – o anche per coloro che non lo hanno ancora visto, o che mai lo vedranno, anche se, per questi ultimi, seguendo la logica suesposta, quanto leggeranno – e se andranno fino alla fine – non ha necessariamente valore di stimolo o consiglio per poi andare a vederlo.
La Venere di Botticelli
La trama, se di trama si potesse parlare – ma il regista è allergico a questa parola come letto da più parti – racconta che il film è costruito partendo dalla mitologia in quanto intende evocare il mito della Sirena Partenope, considerata da tradizione come la fondatrice di Napoli. Il suo nome ha origine dal greco e significa “vergine” e diverse leggende raccontano che la sirena, nata in mare, fondò Napoli per amore.
Come non andare col pensiero, dunque, alla Venere di Botticelli la quale, addirittura, appoggia i propri piedi in un’enorme conchiglia?
Il mare di Sorrentino e quello di Pietro Guccione
Nessuno, come Piero Guccione, ha dipinto il mare – ossessivamente e realisticamente per tutta la vita – come se il suo pennello, lentamente, si fosse trasformato in un obiettivo fotografico al posto della tavolozza. Nel film di Sorrentino, lo so, il mare è quello di Napoli e non quello della Sicilia che affaccia al sud, il mare che Guccione ha ostinatamente dipinto come se fosse degno di essere una natura morta.
Ma il mare è sempre il mare, e la fissità con la quale, a più riprese, Sorrentino a sua volta lo filma, mi ha fatto pensare ai dipinti marini di Guccione, forse per il silenzio che entrambi le visioni impongono a chi guarda ma anche per una certa ripetitività che non manca, né a Guccione né a Sorrentino.
Il bambino malformato e le forme di Botero
A un certo punto del film il professore universitario di Parthenope la fa accedere in una stanza chiusa della propria casa svelandole, così, che in casa vive, immobile, ansimante, un figlio deforme. L’improvvisa apparizione cinematografica di questo “mostro” è degna delle capacità di Carlo Rambaldi, premiato con diversi oscar per le sue creazioni di personaggi extra umani entrate poi nella storia del cinema; una per tutte, E.T. Guardando la scena – che indubbiamente colpisce – attraverso gli occhi di Parthenope, stupita ma anche divertita, non so perché ma sgorga una certa malinconia – forse dettata dalle capacità attoriali di Silvio Orlando (il professore di Parthenope) di rattristare chi guarda – ma non ho potuto non pensare a Botero, alle sue giovani e grassissime ragazze, alle sculture che vorremmo dire informi, ma che in realtà creano un mondo di forme a sé.
Il bimbo mostro è una immensa scultura boteriana da esterni, ne mima le caratteristiche e fa dimenticare, come in Botero, la deformità. Oppure, e qui ero indeciso su cosa esattamente stessi vedendo, mi è come apparso un frame di un cartone animato del maestro giapponese, un’immagine tonda e deforme di un umanoide che ispira simpatia e verso la quale, come in tutti i film di Miyazaki, non si può non essere empatici.
Ori napoletani e Damien Hirst e il suo Treasures from the Wreck of the Unbelievable
Una lunga scena del film sosta nella chiesa napoletana dove è custodito il tesoro di San Gennaro. So che il regista viene imputato, per questa parte del film, di blasfemia, perché Parthenope compie atti impuri proprio con il vescovo il quale, con nome quasi comico, o sconcio, si chiama “Tesorone”. Quando la protagonista finalmente accede alla stanza del tesoro la vediamo coperta d’ori, quei manufatti barocchi e pesantissimi, frutto delle secolari donazioni salvifiche ma, in questo caso, utili per coprire le sue nudità agli occhi degli spettatori e creare un effetto Kitsch che, in quel momento, ha un senso, perché questa parola, di origine tedesca, denomina il cattivo gusto; e non è di cattivo gusto accoppiarsi con un vescovo in una chiesa millenaria?
Dunque, Sorrentino, ha amplificato la scena sino al parossismo nel tentativo di far capire, a chi guarda, che sta scherzando, cerca solo di appoggiarsi alla settima arte per dire quello che gli pare. A me ha evocato un altro kitsch, quello dell’ambiguo artista inglese Damien Hirst, il quale, anni fa, spese milioni per allestire una mostra in cui voleva far credere al pubblico di aver ritrovato un prezioso ed antico tesoro su un relitto affondato al tempo dei romani dal nome emblematico: Unbelievable, cioè Incredibile.
La contorta testa di medusa completamente in oro, facente parte della collezione, ha molto a che vedere con le pesanti collane doro massiccio indossate da Parthenope difronte a uno specchio mentre si rimira prima di concedersi al diabolico Tesorone. Tutto Unbelievable, appunto.
Il sorriso di Celeste e la Gioconda di Leonardo
Deve essere stato notevole lo sforzo di Sorrentino per usare la macchina da presa, per oltre il 70% del girato, sempre con la stessa attrice. Ovviamente sforzo condiviso a pari merito con Celeste Dalla Porta, la protagonista – non principale, ma unica – in quanto è lei che rappresenta, come ho sentito dire dal regista, il suo io più interiore ed artistico, anche se affidato al femminile. Da qui nasce il non semplice sforzo di recitazione che mette a dura prova Celeste, in generale, ma soprattutto lasciando il segno sul volto, in virtù di quei ricorrenti primi piani invasivi che farebbero tremare i polsi anche ad un’attrice molto più esperta e consumata di lei che è qui al suo primo lavoro importante.
Sarà dunque un effetto “difesa”, oppure istruzioni registiche, ma pur nella molteplicità delle scene e delle situazioni, si coglie, nelle sue espressioni, una ripetitività – ma non fissità – che fa pensare allo studiatissimo ritratto de La Gioconda che, dopo secoli, ancora attrae proprio per la mancanza di una risposta alla domanda che tutti, guardando l’opera, si fanno: “a cosa stava pensando”? Guarda caso, nel film, torna spesso questo “ritornello”, perché se lo chiedono tra loro, i protagonisti, e lo chiedono prevalentemente a lei, a Parthenope: “a cosa stai pensando?”. La continua mancata risposta mi porta a vedere, nella mia passeggiata, La Gioconda vinciana, alla quale Sorrentino non può non aver pensato filmando maniacalmente l’attrice che tende a non usare il volto per esprimere sentimenti e scoprire così le sue carte.
Vicoli napoletani vs. Vucciria di Guttuso
Ancora una volta torno in Sicilia, come per Guccione, pur essendo il film integralmente napoletano. Ma quando il carrello della produzione scorre nei vicoli e fissa la galleria dei personaggi tipici di un basso, che indossano sguardi, volti e tipicità che ben conosciamo, la mia mente corre al capolavoro di Renato Guttuso, che in una sola tela riuscì ad immortalare non solo il più famoso mercato di Palermo ma anche un’intera fascia sociale, come fosse la sintesi visiva di un’indagine su chi abita le zone più povere di una città del sud.
E così, come nel quadro di Guttuso alberga una sola figura che potrebbe sembrare fuori luogo – una donna di spalle con una sporta della spesa in mano –, ho pensato che, alla stessa maniera, la figura a suo modo triste, una Sandrelli spaesata dal ritorno, spicca in quelle scene dei vicoli come un’intrusa, come un elemento avulso dal contesto e, per questa ragione, forse invisibile ai più. Infatti, nel quadro di Guttuso, si è portati ad osservare più l’enorme carcassa di carne sulla destra, piuttosto che quella figura centrale che, peraltro, rivolgendo le spalle a chi osserva, esalta (come sembra accadere alla protagonista della seconda vita di Parthenope) la casualità del nostro errare.
Edward Hopper e il bar americano
Un cameo di un attore americano, Gary Oldman, ci trasferisce per alcuni tratti in un mondo anglosassone lontano anni luce da Napoli e Capri sebbene entrambe mete amate dagli statunitensi. Ma quando la macchina da presa, lentamente, scorre e indugia su un’immane caterva di bottiglie di gin consumate dal personaggio – che nel film è il famoso scrittore John Cheever – non posso non pensare a Hopper, che nella sua arte dà corpo alla solitudine e allo stordimento delle persone con la sua innata capacità di replicare questa sensazione di straniamento pur nel cambiamento costante di ciò che ritrae.
E il film, che già scorre lentamente di suo, nei momenti incentrati sull’incontro tra lo scrittore e la giovane in cerca della verità, rallenta ulteriormente, proprio come la vita quando ci si lascia andare ai fumi e alle temporanee gioie dell’alcool.
Ori e sfarzi nelle pitture ottocentesche
Il film inizia con l’immagine di un’antica carrozza, che poi ricorrerà ancora più avanti. Il fermo immagine, e poi il close-up, fa pensare a quei dettagliatissimi quadri vittoriani che ancora per poco – poi arriverà l’invenzione della fotografia – erano a cura di pittori stimolati dalla necessità di rappresentare il vero e, in sostanza, col senno di poi, rappresentano oggi i fotografi dell’epoca.
L’immagine che vediamo in apertura di pellicola ha la stessa capacità di dettaglio di un quadro vittoriano pre-Turner, o di una tela di un autore francese di primo Ottocento (che già piegava l’immagine al sentimento interiore, dunque all’impressione) ma muove, in chi guarda, un istintivo e pericoloso accenno di noia (il film è solo all’inizio) la stessa che proviamo oggi, abituati a ben altre sorprese pittoriche, quando attraversiamo una sala museale di opere ottocentesche.
Gouache napoletane per il Grand Tour
Un classico dell’epoca. Napoli era sosta obbligata del Gran Tour, gli inglesi, soprattutto, arrivavano a cavallo o in carrozza (appunto) e impazzivano per il golfo. Da lì l’opportunità, per chi aveva capacità artistiche, di creare questa stupende “cartoline” dal tocco inconfondibile da vendere a caro prezzo ai nobili del nord che volevano tornare in patria con un souvenir di peso. Come non pensare alle gouaches che raffigurano il Vesuvio, Posillipo, le barche colorate ritratte in mezzo all’allora placida insenatura tra le più famose del mondo?
Sorrentino ne offre a iosa di gouaches nel suo film, una più bella ma anche più prevedibile dell’altra e chissà che per lo storyboard della sceneggiatura non abbia avuto sotto gli occhi un dipinto di genere, magari della famiglia Gianni, i più famosi ma anche maggiormente commerciali di tutta quella comunità che aveva trovato finalmente una sicura fonte di guadagno. Ne ho contate almeno dieci di simil gouache nel film del regista napoletano.
Effetto flou alla David Hamilton
Alla fine della mia passeggiata, nella pinacoteca di Sorrentino, non trovo un quadro ma una foto. È uno scatto di David Hamilton, famoso fotografo inglese degli anni Settanta specializzato in scatti di giovanissime ragazze esaltate da immagini sfumate e spesso floreali, che facevano pensare ad un mondo agreste, un’Arcadia vagamente morbosa. I suoi erano scatti di modelle scelte tra ragazze adolescenti o comunque molto giovani, seminude se possibile, vestite con abiti leggeri che facevano pensare alla primavera. L’effetto, che marcava il timbro del maestro, era flou, la famosa “sfocatura hamiltoniana” della luce che rendeva le foto sensuali, bucoliche, magari romantiche ma, riviste oggi, vagamente borderline.
In una scena del film uno dei diversi spasimanti di Parthenope annusa il suo costume da bagno. Non so perché ma, vedendo quel momento, ho pensato ad Hamilton il quale, magari per ispirarsi per uno scatto successivo, facesse la stessa cosa. L’effetto flou, o “sfocatura sorrentiniana” potrebbe avere questo padre nobile (non tutti però la pensano così) della fotografia d’autore.