Pompei, uno studio sul DNA dimostra che le persone morte “abbracciate” non erano imparentate

Se c’è qualcosa dinnanzi al quale il pubblico di Pompei rimane costantemente attonito, quel qualcosa sono senza dubbio i calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, che nel 79 d.C. distrusse la città. Sono l’immagine stessa del tempo che si ferma di fronte alla morte, la fotografia più emotivamente impattante delle conseguenze del cataclisma. Quella di colare una miscela di gesso (o cemento) e acqua all’interno dei bizzarri spazi vuoti che, di tanto in tanto, i primi archeologi impegnati a Pompei si trovavano dinnanzi fu una brillante intuizione dei primi direttori del sito, da Bonucci a Fiorelli.

Cos’erano quei vuoti tra gli strati di cenere e lapilli? Nient’altro che lo spazio lasciato libero dalla naturale decomposizione dei materiali organici, legno sì, ma anche carne e ossa, originariamente incastonati nell’armatura delle colate piroclastiche rapidamente raffreddatesi, e poi degradatisi nel tempo. Ed ecco che, quindi, le colate rapprese restituirono tragiche scene di disperazione e morte, il cui forte impatto emotivo diede adito alla creazione di narrazioni attorno ad esse che ne rendessero ancora più vivido l’effetto di tragicità e drammaticità. Un adulto con bracciale con in braccio un bambino divenne subito una madre con il figlio, due individui colti in un ultimo, drammatico abbraccio divennero due sorelle.

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Ma al di là di fornire una narrazione emotivamente coinvolgente e accattivante, possono dei calchi di più di 150 anni fa dare ancora un contributo anche alla ricostruzione scientifica e critica del passato? La risposta è sì, ed è una risposta anche estremamente originale e inaspettata.

Un’equipe di ricerca internazionale che vede coinvolti importanti centri di studio, dall’Università di Firenze al Max Planck Institute di Lipsia fino all’Università di Harvard e – ovviamente – il Parco Archeologico di Pompei stesso, ha avuto l’intuizione – brillante tanto quanto quella dei calchi – di provare ad analizzare gli isotopi dello stronzio presenti negli scarsi resti organici ancora intrappolati nei calchi, per desumere qualche informazione in più sui defunti, dal sesso all’origine geografica fino ai rapporti genetici. E i risultati sono stati assolutamente sorprendenti. Individui ritrovati nei medesimi edifici, e originariamente interpretati come appartenenti allo stesso gruppo familiare, non erano – in realtà – in alcun modo imparentati tra loro.

La madre con in braccio il figlio citati prima erano – in realtà – un uomo e un bambino senza alcun vincolo genetico. Una delle due sorelle, colte nell’ultimo abbraccio, era in realtà di sesso maschile. La stessa origine geografica degli sfortunati abitanti di Pompei è stata rimessa in discussione: i background genomici dei vari individui analizzati sono molto diversi tra loro, e in molti casi rimandano a recenti fenomeni migratori dal Mediterraneo orientale, a ulteriore dimostrazione di un cosmopolitismo piuttosto radicato in seno all’Impero.

Tutto questo deve indurre a una profonda riflessione sui modi che i moderni hanno di interpretare e rielaborare il passato, modi molto spesso basati su categorie interpretative – appunto – della modernità, valide magari per il nostro di mondo, ma non sempre per quello che ci si trova di fronte. Da qui scaturisce l’importanza di integrare i pur sempre validi dati archeologici e storici con quelli – sempre più innovativi – desunti da indagini di natura marcatamente scientifica. È solo questo che porta dei calchi di quasi 2000 anni ad essere ancora pregni e fecondi di informazioni. 

E diciamocelo…anche la narrazione legata ai suddetti calchi può non essere violentata, ma anzi acquistare una vitalità del tutto nuova. È indubitabile che la “simpatia” (nel senso etimologico di partecipazione corale ad un sentimento) suscitata da una madre che stringe per l’ultima volta la propria prole sia qualcosa che pizzica le corde dell’emotività moderna. Ma più del vincolo familiare può – forse – il vincolo umano di due individui non legati tra loro che condividono la tragedia insieme. E che il tempo decide di consegnare all’eternità.

Forse un monito per la modernità?  

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