Dal 13 giugno 2024, il giorno in cui mio figlio Bernardo ha lasciato la vita terrena per il suo viaggio radicale fuori dalla capsula corporea, pochissime mostre avevano toccato le superfici sensibili del mio cuore aperto. Nessun artista – a parte Caterina Giglio con la sua personale che ho curato a novembre – riusciva a sovrapporre il livello iconografico al piano quantistico delle mie elaborazioni interiori.
O meglio, nessuno fino al momento in cui ho varcato la soglia del Palazzo delle Esposizioni, ritrovandomi in un’oasi spirituale dove le tende nomadi sono diventate i rifugi ultraterreni di uno sciamano dei sentimenti come Francesco Clemente (la mostra è stata curata egregiamente da Bartolomeo Pietromarchi).
Che fosse uno dei più grandi artisti italiani lo capii tempo addietro, non appena vidi i capolavori di grafica per la 2RC di Valter e sua figlia Simona Rossi, quando il narciso prismatico proseguiva il suo moltiplicarsi karmico nei circuiti cosmogonici della cultura indiana, dentro un ossigeno yogico che ha permeato la poetica del più asiatico tra i cinque della Transavanguardia.
Una carriera esplosiva dopo il trasferimento a New York e l’inizio di una relazione privilegiata con l’iconografia indiana delle Upaniṣad e della dottrina buddista, nel solco di un autoritrarsi ossessivo e liberatorio: pennellate come voli radenti sull’acqua, come ali che spostano nuvole, come palloncini colorati che salgono in cielo. Intrecci di tecniche manuali per tornare al volto da cui lo sguardo sorge, al corpo da cui il movimento scatta, ai gesti da cui le emozioni si irradiano.
Oggi le sue immagini sono impresse a tempera negli interni delle tende nomadi, fulcro abitabile di una mostra che sfugge ai riti antologici per celebrare la narrazione sospesa di una fiaba allestita, un cammino nel paesaggio emotivo dove il museo somiglia ai deserti salini e dove le tende interrompono il bianco con l’imponenza poetica dei loro pattern mimetici, quasi a richiamare il camouflage degli eserciti che qui, senza soldati in giro, si trasforma nella roccia mimetica degli angeli erranti.
Le superfici interne chiedono agli occhi di abituarsi alla poca luce; un attimo dopo, la gestazione ottica fa nascere autoritratti metamorfici, incarnazioni di animali antropomorfi, angeli addormentati, oggetti e forme trascendenti di un sincretismo colorato e odoroso, intriso di quel metabolismo generoso con cui Clemente si autoritrae da decenni per offrirci le versioni nascoste di noi stessi, come se ci specchiassimo in lui per rivelare il nostro moltiplicatore emotivo su un piano cosmogonico.
Poi, ad un certo punto, la tenda pareva indicarmi un altro panorama, qualcosa che attirasse lo sguardo oltre le superfici mimetiche (ricche di inserimenti pittorici che creano finestre da cui spuntano parole, architetture e sculture dall’alone divino). E allora, come un vagabondo con la lanterna, eccomi nella stanza del mio innesto con Bernardo: nulla di nulla sul pavimento, solamente un gigantesco disegno ondoso a parete, un rettangolo marino disegnato col rosso spento di una terra marziana: sopra un’onda che pareva piramide o montagna ecco la piccola barca con due giovani a bordo, profili felici di sacrale energia con lo sguardo l’uno dentro l’altro, il più silenzioso dei dialoghi oltre la gravità terrestre, una visione amorevole che ha varcato la soglia della quinta dimensione, dandomi segnali di un’apparizione privata in ambito pubblico.
Francesco Clemente non sapeva pur sapendo, perché il vero sciamano sparge doni per coloro che conoscono l’attesa e il codice d’accesso: in quel preciso momento ho ascoltato l’impronta di Clemente e la risonanza di mio figlio, la sua giovane affermazione di essenza senziente, vicino a me ma immerso nella sua fantasia quantica, nel suo volo matematico tra mare e cielo, nella sua libertà di amare senza paura e in piena spinta pindarica.
Mostre come questa non sono semplici riti culturali ma esperienze animistiche di una visione che ragiona per codici genetici e algoritmi esistenziali, lungo gli assi cartesiani del dialogo oltre la parola, nel cuore volante dei suoni interiori, delle onde di ogni singolo destino, su piccole barche che diventano navicelle dalle traiettorie infinite. Buon viaggio amore mio…
E grazie Francesco Clemente per questo regalo che aveva il nome di Bernardo inciso dietro il muro, oltre il bianco delle lunghe pareti, sul profilo di un orizzonte circolare in cui Berni balla insieme ai suoi vecchi e nuovi amori, oggi come domani, perdendo il senso del tempo e reinventando la misura dello spazio.