Come un sussurro oscuro che serpeggia nella mente, Longlegs di Oz Perkins non si limita a raccontare una storia: la disseziona, la contorce, la trasforma in un’esperienza sensoriale che sfida ogni ordine e logica razionale. È un’opera che accarezza il linguaggio dell’incubo, dissolvendo le coordinate del reale per evocare un teatro di ombre dove il tempo si dissolve.
Il preludio stesso è una porta socchiusa su un mondo fragile e inquietante. Una bambina, esitante, scende da un’automobile, fissando una casa isolata che si staglia come un presagio. La scelta del formato 4:3 è una morsa che cattura lo sguardo, una finestra deformata che condensa un’intera estetica dell’angoscia. Perkins costruisce un microcosmo emotivo, suggerendo già nei primi istanti il divario insanabile tra percezione e verità. Ogni immagine sembra gravata dal peso dell’impotenza, quella sensazione in cui l’essere umano è ridotto a spettatore di un destino che lo supera.
L’ambientazione è un’America degli anni ’90, non restituita con pedanteria storica ma evocata come una chimera, un ricordo sbiadito e deformato dai vapori del tempo. In questo scenario volutamente sfumato si muove Lee Harker, un’agente dell’FBI che, al suo primo incarico, si imbatte in un’indagine complessa. Maika Monroe offre una prova attoriale al contempo glaciale e vulnerabile, disegnando una protagonista che sembra trattenere nei suoi gesti un passato inespresso e insondabile. Lee è una figura liminale, sospesa tra la logica ferrea del dovere e un’istintiva connessione con il mistero che la circonda.
Il fulcro del film è un male quasi cosmico che si manifesta attraverso una serie di crimini raccapriccianti: padri che massacrano le proprie famiglie, guidati da una volontà che sfugge alla comprensione umana. L’ombra che si allunga su questi eventi è quella di Longlegs, un assassino che incarna il perturbante stesso, un’entità in cui il mostruoso si fonde con il demoniaco. Nicolas Cage, irriconoscibile sotto protesi che lo rendono un’apparizione ferina, interpreta questo personaggio con un’intensità che trascende il puro atto recitativo, trasformandolo in un simbolo di insondabile malvagità.
Perkins intreccia la narrazione mescolando passato e presente, reale e surreale. Il film non segue una struttura tradizionale, ma danza attorno ai propri enigmi con la leggerezza ipnotica di un sogno febbrile. Bambole inquietanti, date criptiche e altari di simboli occulti si susseguono come frammenti di un puzzle impossibile da completare. Le bambole disseminate nelle scene del crimine, con i loro occhi vuoti e i loro corpi fragili, sono emblemi di un’innocenza divorata da forze incommensurabili.
Il viaggio di Lee è una discesa inesorabile verso l’abisso del disfacimento mentale. La sua sensibilità diventa una lama a doppio taglio: uno strumento che le consente di avvicinarsi alla verità, ma che rischia di farle perdere la presa sul mondo razionale. Lungo il cammino, tuttavia, Perkins inciampa in una tentazione narrativa: un monologo esplicativo che cerca di codificare l’orrore. È un momento che interrompe la danza del caos, tentando di dare un volto alla sfinge. Ma gli incubi, come l’arte stessa, vivono nell’ambiguità, nella loro capacità di sfuggire a ogni spiegazione.
Longlegs è una spirale che risucchia lo spettatore, un’ode sinistra alla natura insondabile del male, che non è un’entità da affrontare o sconfiggere: è un’ombra che scorre dentro e oltre l’essere umano, silenziosa, eterna, implacabile.