Lavorare la porcellana lascia il segno. Ti colora la pelle, ti distingue, ti resta sulle mani. E quello di Diego Cibelli non è solo un solco visibile, ma anche figurato, immerso tra la mitologia e la storia della cultura napoletana. La galleria Alfonso Artiaco ospita la sua ultima personale, “Un vuoto che non ha luogo”, in un antico palazzo della città che affaccia su “Largo Corpo di Napoli”. Chiamato così perché una figura distesa vi campeggia tra i vicoli: inizialmente acefala venne riconosciuta come la Sirena Partenope. Si trattava invece del Dio Nilo.
E proprio l’acqua è uno degli elementi fondanti della cifra stilistica di Cibelli, che dalle onde prende e alle stesse restituisce. Delle sei sale della galleria, una appare devotamente dedicata al mare: si chiama “Metamorfosi”, perché qui le sue sculture si ergono come coralli, spugne, invertebrati marini: tutte ispirate ai disegni di Ernst Haeckel, eppure diverse nell’aspetto sì educatamente barocco ma egualmente fragile.
Tuttavia il viaggio nell’universo dell’artista inizia da una nascita, e più specificatamente dalla fertilità, un altro fondamentale tassello delle viscere partenopee. La prima sala, “È nato Generosity”, è infatti un tripudio di Natura, una cornucopia nella cornucopia: animali, fiori e piante, simbologie arcaiche e antiche rappresentazioni bestiarie. Un labirintica esplosione naturale fatta di sculture e sagome, un ricco parterre immaginifico di cui fanno parte anche le ornamentali basi delle sculture, casse in legno meravigliosamente parte del gioco di presenze.
Di fronte a questa rigogliosa vegetazione artistica, un video mostra un bambino nella periferica Scampia: imbraccia una delle sculture, la culla, la coccola, se ne prende cura. Una luce in quello che è un ostentato racconto di violenza, nel luogo da cui l’artista proviene e in cui tutt’oggi lavora. È questa la nascita di cui ci parla Cibelli. È questa la fertilità del substrato napoletano. Eppure l’Uomo, in quello che è il suo racconto di vita, appare beatamente fragile – parafrasando il titolo della penultima sala – solo in età fanciullesca. Come se, post-metamorfosi, l’essere umano entrasse in uno stato di trance sognante.
La dimensione onirica che ne consegue, e che ci accompagna sino a fine mostra, si svela dapprima con una sala acchiappasogni, accostando simboli, raffigurazioni e figure appartenenti a diversi stili ed epoche. Cadono dall’alto soffitto della galleria, raccontano “Storie per farlo dormire”: sono architetture e livelli della nostra mente, che ci inducono al sonno più profondo, entro cui la sala “Enigma” si inserisce come proiezione dei luoghi più inaccessibili della nostra coscienza. Qui, una scultura all’apparenza incompiuta, dai tratti sia umani che animaleschi, si staglia contro un fondo nero a larghe pennellate: ci ricorda una montagna da scalare, ovvero l’impervia profondità del nostro io.
Inevitabile termine del viaggio appare la morte, che nell’ultima sala ci accoglie come un’ulteriore metamorfosi del leggendario Tuffatore di Paestum, dal volto di cetaceo. Un salto nell’aldilà, lasciando alle spalle il peso morto del proprio corpo e gettandosi nell’abisso unicamente con l’anima: un vuoto che non ha luogo, per l’appunto. Risoluzione del viaggio e punto di arrivo – e forse anche di partenza – di questa illuminante esposizione.
“Un vuoto che non ha luogo” ci culla sulla riva della vita, in bilico tra artificio e linearità, sogno e coscienza, misticismo e storia. Svela con la delicatezza della porcellana la complessità del nostro percorso di crescita, bisognoso di una remota fanciullezza nascosta tra i terrori della nostra anima. La mostra sarà visitabile fino a fine anno.