Una delle caratteristiche che rende A Complete Unknown un film speciale e destinato a durare, è l’intuizione di non essersi limitati a un biopic tradizionale, ma di aver trasfigurato eventi chiave della vita di Bob Dylan in una narrazione ampia e universale. Il film è una potente riflessione sulla libertà e sulla necessità di trovare il proprio spazio, anche nei confronti delle persone più care, degli affetti più profondi e delle figure che ci hanno ispirato. Pure a costo di far loro del male.
E se l’interpretazione di Rami Malek nei panni di Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody aveva impressionato, quella di Timothée Chalamet in A Complete Unknown va ben oltre. L’attore newyorchese ha riprodotto con una precisione straordinaria le movenze di Dylan, se ne accorgeranno i fan che, provando una familiarità totale, saranno costretti a rinunciare a qualsiasi tentativo di critica. La prova attoriale è rafforzata dal fatto che Chalamet ha cantato e suonato le canzoni nel film, raggiungendo un livello di imitazione inaspettato e coinvolgente.
Anche lo storytelling è notevole: come insegna la teoria del viaggio dell’eroe, le narrazioni più efficaci, seguono il percorso di un protagonista che, affrontando prove e trasformazioni, ritorna al punto di partenza con una nuova consapevolezza. La pellicola si apre e si chiude nella stessa ambientazione, ma con due versioni di Bob completamente diverse, segnando un perfetto cerchio narrativo.
I titoli di testa sono affidati ad una canzone di Woody Guthrie, uno dei più grandi cantautori folk americani, noto per aver raccontato, con la sua musica essenziale e diretta, le difficoltà della classe operaia durante la Grande Depressione. Affidandosi solo alla voce e alla chitarra, Guthrie trasformò la semplicità in un potente strumento di espressione, diventando il portavoce di chi lottava per giustizia e cambiamento. A lui Dylan ha reso omaggio componendo il delicatissimo talking blues Song to Woody, presente anche nella pellicola.
Bob Dylan intraprese un viaggio per raggiungere Woody Guthrie, sapendo che il suo idolo era gravemente malato e ricoverato. Il film parte da quel momento significativo e segue la trasformazione del giovane Robert Zimmerman in Bob Dylan, un’icona musicale dall’identità sfuggente e innovativa, capace di unire le radici del folk con il blues e il rock ‘n’ roll. Sullo schermo vediamo un Dylan ventenne, che inciampa nella difficoltà di conciliare la creatività con la sfera sentimentale e soprattutto, un ragazzo tormentato alla ricerca di sé stesso e alle prese con l’urgenza di esprimersi artisticamente. Con i primi riconoscimenti, si ritrova immerso in un nuovo ambiente lavorativo, dove entra in contatto con Joan Baez, cantautrice che avrà un ruolo cruciale nella sua carriera, sia a livello artistico che personale.
All’epoca, Dylan era fidanzato con Suze Rotolo, che nel film diventa Sylvie Russo, un cambiamento di nome scelto per rispettare la riservatezza della vera Rotolo. Nota per la sua iconica apparizione sulla copertina di The Freewheelin’ Bob Dylan, dove cammina abbracciata a lui per le strade di New York, Suze fu una figura chiave nei suoi primi anni di carriera, supportandolo sia emotivamente che ospitandolo nella sua casa. Tuttavia, mentre Dylan si affermava rapidamente come la più grande promessa del folk americano, la sua vita sentimentale diventava sempre più complessa.
Nel film, come nella realtà, Dylan appare diviso tra il presente e il futuro, incapace di riconoscersi pienamente in entrambe le dimensioni. Questa stessa indecisione si riflette nelle sue scelte sentimentali: restare con Suze/Sylvie o lasciarsi trasportare dalla relazione con Joan Baez? La decisione finale è rivolta verso l’unica grande e costante infatuazione di Dylan, quella per la libertà, assecondando la tendenza a fuggire qualsiasi forma di stabilità che rischia di trasformarsi in una catena. Da questi eventi di gioventù, si delinea un ritratto puntuale della vera essenza del cantautore: un uomo che non ha mai voluto appartenere a nessuno, nemmeno a sé stesso.
La natura contraddittoria di Bob Dylan è ben nota, così come il suo rapporto spesso turbolento con il pubblico e il successo. Uno degli episodi più emblematici è quello del Premio Nobel per la Letteratura, assegnatogli nel 2016: Dylan non si presentò alla cerimonia ufficiale, scatenando polemiche e dividendo l’opinione pubblica.
L’episodio che meglio incarna la sua necessità di sovvertire le aspettative altrui è senza dubbio il leggendario concerto di Newport, raccontato anche nel film. Durante questo festival folk, Dylan si presentò sul palco con una chitarra elettrica, gesto apparentemente semplice, carico invece di provocazione. Il Newport Folk Festival era il cuore della musica di protesta, dove il messaggio doveva prevalere sulla forma musicale, che doveva rimanere scarna, vicina al popolo e priva di fronzoli per concentrarsi meglio sulla forza dei testi.
Essendo divenuto, suo malgrado, una sorta di “Messia” del folk, Dylan si sentiva intrappolato in un ruolo che non aveva scelto. Decise così di presentarsi sul palco con una chitarra elettrica e una band, rompendo gli schemi del suo genere, scatenando l’ira dei fan più tradizionalisti che si sentirono traditi. Questo episodio segna l’inizio di una fase della sua carriera in cui ogni esibizione diventava uno scontro aperto con il pubblico, che non riusciva ad accettare il suo cambiamento e che manifestava il dissenso lanciando oggetti ed insulti verso il palco.
Questo ci porta alla domanda centrale del film: per crescere, è necessario tradire? Per evolversi e diventare la versione migliore di sé stessi, è giusto lasciare indietro le persone che ci hanno formato, amato e contribuito a farci diventare ciò che siamo? E, infine, cosa significa davvero tradire? Il più profondo tradimento a cui assistiamo è quello verso il “completo sconosciuto“ che Dylan era divenuto nel presente, mentre già si era catapultato verso il proprio futuro, verso il sé stesso che sentiva di dover diventare.
Nel suo libro Chronicles: Volume 1, Dylan scrive di Guthrie: “Ho dovuto lasciarlo alle spalle. Se avessi continuato a seguirlo, non sarei mai diventato me stesso. La sua musica mi aveva influenzato, ma dovevo fare qualcosa di mio.”
Mangold, regista e sceneggiatore del film, sembra essersi ispirato a questa riflessione per il meraviglioso epilogo, in cui Dylan, con rispetto e gratitudine, saluta Guthrie per poi allontanarsi in moto, pronto a vivere l’ignoto e a liberarsi finalmente dal gravoso fardello delle aspettative e delle responsabilità scaturiti dai legami affettivi.