“Peggy Guggenheim – L’ultima Dogaressa” racconta, come non era stato fatto mai, la nascita e lo sviluppo dell’intera collezione d’arte.
A Palazzo Venier dei Leoni si è appena conclusa la mostra “Peggy Guggenheim. L’ultima Dogaressa” a cura di Karole P. B. Vail, direttrice della collezione, con Gražina Subelytė che ha celebrato, a quarant’anni dalla morte, il periodo veneziano della donna che ha influenzato una parte importante della storia dell’arte moderna. Aspettando la mostra “Migrating Objects”, sui manufatti artistici provenienti dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe, che svela un lato inedito del collezionismo e degli interessi di Peggy Guggenheim, è stato pubblicato un prezioso libro “Peggy Guggenheim – L’ultima Dogaressa” che racconta, come non era stato fatto mai, la nascita e lo sviluppo dell’intera collezione d’arte.
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Il volume presenta 12 mini saggi, tra approfondimenti storici e ricostruzioni biografiche, interessanti foto che immortalano la dogaressa nelle sue città d’elezione e con le sue opere, e infine completano la pubblicazione, tre interviste agli artisti Marina Apollonio, Alberto Biasi e Franco Costalunga. Quando si inizia la lettura si viene letteralmente trasportati a Londra dove a 39 anni Peggy Guggenheim inizia il suo viaggio nel mondo dell’arte, un’avventura ispirata ad un consiglio di una sua amica d’infanzia che le suggerisce di iniziare un lavoro serio quale potrebbe essere aprire una casa editrice o una galleria d’arte. Pare che la scelta di dedicarsi a quest’ultima sia dovuta al fatto che fosse ritenuta meno costosa rispetto ad altro e nel 1938 apre i battenti Guggenheim Jeune. Peggy ammette da subito che le sue intenzioni sono pure e come confesserà “poiché non appartengo alla prima, bensì alla terza generazione Guggenheim, il mio obiettivo non è far soldi ma aiutare gli artisti”. Con la stessa purezza afferma candidamente “non capivo niente di arte”, e siccome Londra non sembra molto interessata alle sue proposte artistiche e poiché la galleria non decolla, immagina di aprire un museo d’arte moderna nel 1939, un progetto che le sembra più solido. I suoi art advisor, come si direbbe oggi, saranno il critico e storico dell’arte Herbert Read, il mercante Howard Putzel e Marcel Duchamp che non solo le insegnò la differenza tra surrealismo e astrattismo, ma le presentò molti artisti.
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La città ideale per continuare a collezionare opere d’arte per il progetto del museo immaginato dalla Guggenheim è Parigi dove visita “L’exposition International des arts et des techniques dans la vie moderne” nel 1937. In Francia acquista, tra le altre, le opere di Balla e Severini anche se a Parigi capisce che la situazione è ormai insostenibile e a Emily Coleman scriverà che ormai “non è rimasto nessuno qui ad aiutare l’arte moderna, perciò come puoi immaginare ho il mio bel da fare”. Gli artisti sono in pericolo e le sue opere, circa 70 considerate dai nazisti arte degenarata, vengono dapprima conservate vicino Vichy per poi essere spedite e atterrare a New York il 14 Luglio 1941. Grazie a Peggy Guggenheim non solo le opere ma anche gli artisti in pericolo lasceranno l’Europa e si trasferiranno negli Stati Uniti. A New York continua il suo impegno e nel 1942 inaugura la galleria “Art of this Century”. “Sono del tutto consapevole della responsabilità insita nell’aprire questa galleria e la collezione al pubblico, mentre le persone stanno combattendo per salvarsi e per la libertà. Questa iniziativa avrà assolto il suo compito solo se riuscirà ad essere d’aiuto al futuro e non a registrare il passato”. E l’Arte sembra aver scelto proprio New York e la galleria di Peggy Guggenheim per ritrovarsi e proiettarsi verso il proprio futuro. L’arrivo degli artisti europei rappresenta una feconda possibilità per ritornare a far rivivere lo spirito dell’arte liberamente, uno spirito che sul suolo americano non è considerato degenerato. Anzi. L’arte è in transizione, per citare Herbert Read, e Art of this Century è “decisiva nel lanciare la carriere degli artisti newyorkesi che diverranno noti come espressionisti astratti, tra i quali, soprattutto, Jackson Pollock, che Guggenheim sostiene senza indugio prima che raggiunga la fama” scrive Antonia Pocock. Inoltre Peggy Guggenheim, nonostante quello che pensano molti critici a proposito delle artiste donne si fa promotrice di molte di loro con 12 personali su 36 organizzate durante il periodo newyorkese.
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In questo libro-atlante dell’arte che racconta un’importante protagonista in un periodo in cui l’ispirazione artistica viaggia tra le due sponde dell’oceano alla ricerca di libertà l’ultima città in cui si attracca è Venezia. L’arrivo di Peggy Guggenheim coincide con la preparazione, con Carlo Scarpa, dell’esposizione delle sue opere nel padiglione della Grecia (che non partecipa a causa della guerra civile) in occasione della Biennale di Venezia nel 1948. L’Italia e l’Europa sono state liberate dal Fascismo e dal Nazismo e l’arrivo della collezione e della collezionista, come riconoscono gli autori del libro, si deve in parte a Emilio Vedova e Giuseppe Santomaso. Il padiglione Guggenheim, quasi fosse un paese europeo come lei stessa affermerà, riceve elogi e critiche. Prima che nel resto d’Europa in Italia verranno esposte le opere di artisti come Arshile Gorky, Jackson Pollock e Mark Rothko. Sempre a Venezia nel 1950 organizza la mostra dei suoi ventitrè Pollock (donerà anche un dipinto dell’artista alla Galleria d’arte moderna di Roma) e come si può ben immaginare le reazioni saranno tra le più disparate. “Guggenheim porta il Nuovo Mondo a galvanizzare il Vecchio così come anni prima aveva fatto l’opposto” e l’Italia è in prima fila. Leggendo il libro ci si trova davanti ad una donna, che non solo ricorda le storie sui mecenati dell’antichità, ma che inventa e incarna una figura nuova, un catalizzatore culturale che non è solo gallerista e nemmeno una “semplice” collezionista ma disegna per sé un ruolo “istituzionale”. Quasi fosse un museo in carne ed ossa capace di conservare la storia dell’arte e condizionarne la ricerca da parte degli artisti divenendo essa stessa parte integrante della storia dell’arte. Infatti di sé stessa diceva “Io non sono un collezionista d’arte. Io sono un museo”.