Addio Zaza Calzia, l’eterna bambina dell’arte sarda

Figura centrale del panorama artistico sardo, Zaza Calzia ha fatto parte di quella generazione di illuminati che dalla fine degli anni Cinquanta ha sovvertito i canoni estetici della pittura isolana. La sua ricerca formale si alterna a quella astratto-geometrica per approdare negli anni Ottanta alla Poesia Visiva con l’ausilio del collage la cui costante è incarnata da sguardi magnetici e penetranti: mi attraggono gli occhi perché parlano. Zaza era la dolcezza fatta a persona. Una donna solare con una vitalità dirompente, un’energia creativa straordinaria e l’anima di una bambina. Quando le chiesi quale fosse il suo segreto mi rispose: voglio cercare di essere una donna ma tutti mi prendono per una bambina perché lavorare per me è stato un divertimento, un gioco. Mi sono sempre divertita moltissimo e l’ho sempre fatto giocando. Zaza era questo e molto altro. Ci mancherà.” Roberta Vanali, critica e curatrice

Zaza Calzia Senza titolo tempera su cartoncino 70x50cm 1965 ph Nelly Dietzel

Ho conosciuto Zaza Calzia per caso, o meglio, in quel momento della mia vita, sembrava quasi un caso. Prima del Covid, prima dell’isolamento, prima di quella paura verso un ignoto e nefasto destino, che sembrava entrare nelle case senza bussare. Appena prima, era gennaio. 

La casa di Zaza Calzia a Roma era un laboratorio, un archivio e un nido. Alle pareti opere d’arte, sue, del marito Nino Dore e degli amici e colleghi di sempre. L’archivio di Dore occupava una stanza intera, quello di Calzia, anche due. Libri ovunque, sugli scaffali, sul tavolo, sul pavimento, riviste di ogni tipo ed infiniti ritagli di carta, lettere e parole, occhi e sguardi, forbici, cutter e colla, erano la scenografia del suo teatro. Sentirsi osservati era il minimo sindacale in quella situazione. L’odore di carta e colla era in ogni stanza, anche in cucina. 

Il colore, per quanto utilizzato nelle sue opere, blu, rosso, giallo, era ovunque in casa, dalle pareti agli arredi, dal maglione che aveva addosso quel giorno d’inverno alla coperta fatta a mano stesa a coprire il divano. Zaza Calzia era già anziana, vitale, allegra, in quel momento evidentemente felice di ricevere la visita di una compaesana. Quello studio visit è diventato l’inizio di un dialogo, anni dopo una mostra, nel frattempo chiacchierate, interviste e parole

È stata insegnante e quella deformazione professionale era evidente costantemente, spiegava, raccontava, come se davanti avesse una ragazzina, a momenti in realtà, la ragazzina sembrava lei, quando immersa nei ricordi, parlava della sua vita. Se penso alla sua voce, penso ad una risata, nonostante i fiumi di parole riversati su carta o ascoltati, registrati e riascoltati per ore. L’umore di Zaza determinava il suo modo di vivere le situazioni della vita, gli ostacoli, le difficoltà, il dolore o la delusione, le mancanze e la fatalità: lei era comunque serena. 

Zaza Calzia Senza titolo tecnica mista su tavola 97x72cm 1969 ph Nelly Dietzel

I libri mai pubblicati, le opere mai esposte, quelle perse, quelle vendute e mai pagate dai galleristi, i curatori e le loro promesse non mantenute, l’età, gli acciacchi e le parole al vento, non avevano un peso reale dentro di lei, erano cose così, fine. Zaza andava oltre. La ricerca artistica sempre e comunque e la manualità inarrestabile hanno fatto il resto. I figli erano tutto. Madre orgogliosa, libera e onesta, artista concreta, colta e profonda, poteva capovolgere una stanza se alzava il tono di voce o passare totalmente inosservata se ne sentiva il bisogno. 

Zaza Calzia ha influenzato profondamente l’arte contemporanea sarda e non solo, ha insegnato, ha provocato, aiutato, coltivato, cresciuto, amato, le persone che la vita le ha messo accanto. Ha scelto, dove vivere, come lavorare, cosa dire, ogni giorno. Ha cambiato punto di vista e nel farlo ha permesso a chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscerla, di continuare a farlo quotidianamente. 

Un’artista, una madre, una poetessa, una letterata, una donna che ha insegnato ed insegnerà a chi avrà voglia di ascoltare, di leggere, di osservare e tentare di capire. 

Zaza Calzia Senza titolo acrilico su tela 50x60cm 1971 ph Nelly Dietzel

Zaza Calzia è stata un’artista che si è progressivamente avvicinata all’alito vitale del sentimento dopo aver sperimentato a lungo negli Sessanta e Settanta, insieme ad altri compagni di segno come Ermanno Leinardi, Gaetano Brundu, Nino Dore, Tonino Casula e Rosanna Rossi, metodologie di ricerca che cercavano di svecchiare l’arte sarda ancorata a canoni vetero-folklorici. Bambina eterna, Zaza ha saputo riscoprire la gioia e la meraviglia nel mondo che la circondava, trasformando la sua arte in un gioco di colori, linee e forme. La sua eredità vive nelle opere che ci ha lasciato, un invito a non smettere di sperimentare e di guardare il mondo con occhi sempre nuovi”. Maria Dolores Picciau, giornalista, storica dell’arte 


Comprendo l’eredità contemporanea di Zaza Calzia nel visitare la recente mostra di Crisa presso Mancaspazio: campiture-lacerazioni nere, buio, frammezzate da zone di luce, da graffiti che ospitano e rendono evidenti segni che possono diventare parole. Passaggi dipinti in Crisa, collages cartacei nella costante ricerca di Calzia.  Ho letto per la prima volta il nome di Zaza Calzia in un libro di Marcello Venturoli, conoscendola invece di persona anni dopo, nel 1984, nella sua casa romana.

Zaza Calzia Senza titolo tempera su tela 100x90cm 1962 ph Nelly Dietzel

Qui rimasi colpito dalla parte didattica del suo lavoro (è stata una insegnante), liberamente espresso sui muri domestici attraverso una installazione: esperimento che intuivo fatto per sé stessa, speculare ai contenuti ch’ella aveva maturato e visualizzato in un libro, per me diventato prezioso. Era troppo acerbo il tempo trascorso dalla pubblicazione di Lea Vergine che esortava a riconsiderare la creatività artistica del femminile, “l’altra metà” con le parole dell’autrice, così come la distanza di sei anni dalla mostra sulla materializzazione del linguaggio voluta a Venezia (1978) da Mirella Bentivoglio.

La comunicazione di allora era molto lenta rispetto alla velocità dell’oggi. Ma grande fu soprattutto la sorpresa quando negli anni Novanta, a seguito dello scavo di un collezionista, alcuni parenti dell’artista, a Nuoro, avevano fatto riaffiorare una serie di dipinti giovanili, gestuali e astratti, di grande potenza espressiva e forza segnica. Una Calzia inedita che si confrontava con le avanguardie americane anni Quaranta e Cinquanta, filone poi travasato e maggiormente interiorizzato dal suo compagno Nino Dore”. Antonello Cuccu, artista

3 Commenti

  1. Penso che definire ogni artista sarda che scompare “l’eterna bambina” sia diminutivo e un grave torto nei suoi confronti. Sia perché nessun artista viene definito eterno bambino (perché le donne sì?), sia perché, come scriveva Maria Lai “i bambini non conoscono le associazioni metaforiche dell’arte”. Nel suo gioco da tavolo I luoghi dell’arte, infatti, Maria Lai scrive su una carta da gioco che uno dei luoghi comuni è “questo lo sa fare anche un bambino”. Associare bambine e artiste è un accostamento retaggio del mondo patriarcale, forse in questo caso espresso in modo superficiale.

    • Salve Caterina, penso che la continua ricerca di censurare dei termini che si presume siano “legati” ad una certa cultura (quella patriarcale, di cui tanto si parla ultimamente e a grande ragione) non faccia altro che rafforzarla. Possiamo scegliere se concentrarci su presunte dietrologie legate al titolo di un articolo oppure focalizzarci sull’effettivo contenuto e ricordare, in silenzio e senza inventare sovrastrutture, una grande donna e artista.

  2. Peraltro chiudo citando un nostro stesso articolo, di Paolo Sciortino, dedicato a Oliviero Toscani: “È morto un enfant terrible. E quando muore un bambino, benché terribilmente discolo, il cordoglio è più grande e più sincero. Perché un bambino dice sempre la verità, e la verità è quasi sempre terribile” (https://www.artuu.it/addio-oliviero-toscani-lenfant-prodige-che-voleva-raccontare-la-realta-del-mondo-e-della-vita-in-un-flash/)

    Ergo sì, anche gli artisti maschi vengono sovente definiti eterni bambini. E non solo da noi

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