È martedì mattina, a Bologna piove quando finalmente raggiungo l’ingresso della Fondazione MAST. Come due anni fa salgo verso “Reach”, l’imponente installazione di Anish Kapoor dove si riflettono il cielo e il lastricato, oggi dello stesso colore grigio. Da un paio di mesi ha aperto al pubblico la mostra curata da Urs Stahel che raccoglie i progetti realizzati dai cinque finalisti del “MAST Foundation for Photography Grant on Industry and Work”. Il premio biennale, nato nel 2007 e giunto alla sua ottava edizione, offre l’occasione a giovani fotografi under 35 provenienti da tutto il mondo di sviluppare riflessioni e creare opere sull’impatto dell’industrializzazione e del lavoro.
Pensando a questo tema, le immagini che evoca sono quelle delle grandi industrie: rumorose, caotiche, immerse nella monotonia delle catene di montaggio dove si svolge il lavoro alienante degli operai. Ma il modo in cui i cinque artisti esposti hanno interpretato questo spunto è assolutamente originale, vario ed inaspettato. La vincitrice di questa edizione è l’artista iraniano-americana Sheida Soleimani (Providence, 1990) con “Flyways”. Si tratta di una serie di fotografie, che sulla parete destra della Photo Gallery formano una sorta di costellazione. Questa è posata sullo sfondo di grosse pennellate blu che riproducono un disegno fatto dal padre dell’artista nel periodo in cui progettava, insieme alla moglie, la fuga dall’Iran.

Nella serie fotografica si intrecciano diversi aspetti della vita di Sheida: il suo lavoro di riabilitatrice di fauna selvatica, le storie delle persone incarcerate per aver lottato contro l’oppressione del governo iraniano insieme al movimento “Donna Vita Libertà”, e non meno importante la storia dei suoi genitori, dissidenti politici perseguitati dal regime e successivamente fuggiti in America. In un racconto allegorico insieme scioccante e delicato, i volti dei protagonisti sono coperti o trasfigurati nelle immagini di uccelli morti e feriti, immersi in ambienti surreali. Un mix tra fotografia, collage e set creati con attenzione minuziosa. Non è semplice orientare lo sguardo, le opere ci portano a soffermarci a poco a poco sui numerosi simboli e la narrazione affiora lentamente.
Muovendosi dall’analisi della ricaduta negativa dello sviluppo industriale sulla fauna e la tutela degli habitat, Soleimani dilata la sua visione fino a toccare temi quali la sicurezza sul lavoro e la censura, che elude creando delle nuove rotte migratorie affinché i protagonisti di queste storie possano finalmente trovare una voce.

Strettamente legato alla storia familiare è anche il lavoro di Kai Wasikowski intitolato “The Bees and the Ledger”. L’artista analizza il legame tra lavoro e xenofobia, in particolare l’impossibilità per i migranti di trovare un impiego in linea con le proprie competenze specifiche. Questa problematica affiora grazie alla storia emblematica della nonna dell’artista, polacca emigrata in Australia, che per anni si era occupata di trasporti via mare. Sulle due pareti della prima sala, sono contrapposte due installazioni. A sinistra, una raccolta ordinata di fotografie che rappresentano diversi oggetti personali e di lavoro, raccolti intorno all’immagine di Natalia Broadhurst (la nonna di Wasikowski).
Ogni oggetto è fotografato su sfondo bianco, dando la sensazione di muoversi lungo un archivio asettico dove siamo noi a dover ricostruire con l’intuito la storia della protagonista. Ma queste immagini così statiche entrano in dialogo con l’installazione a destra, immagini vive che raccontano la vita di Natalia tra Polonia ed Australia dove la donna è riuscita, malgrado le difficoltà, a trovare una sua dimensione lavorativa dedicandosi all’orto e all’apicoltura. Continuando lungo il percorso, entro nella sala dove Gosette Lubondo, attraverso i suoi montaggi fotografici accompagnati da un video, interpreta la storia dei lavoratori e delle industrie di Lukula (Congo Centrale).

Qui, le numerosissime industrie aperte con la colonizzazione, rimaste aperte fino agli anni 70 furono poi del tutto smantellate dopo l’indipendenza. “Imaginary Trip III”, terza parte di una ricerca più ampia dell’artista sulla storia del suo paese, ci racconta Lukula intrecciando le dimensioni del presente e del passato. I complessi industriali, una volta imponenti centri nevralgici dell’economia del paese animati dalla fatica degli operai, sono oggi ruderi fatiscenti. Questi edifici scalcinati, soffocati dalla vegetazione e i macchinari dismessi tornano a popolarsi e a funzionare grazie alla presenza dei personaggi, gli ex operai, delle presenze assenti che rimettono in scena un passato ormai lontano. La ricerca di Silvia Rosi, si concentra invece sulla storia delle Nana Benz, le donne che nel mercato di Assigamé, a Lome (Togo) commerciano i famosi tessuti wax.
Queste stoffe pregiate, oggi apprezzate a livello mondiale, nascono con un intento che va ben oltre l’estetico. Ogni pezzo di tessuto stampato, con i suoi motivi intricati, nasconde un messaggio. Si tratta di un sistema di comunicazione molto complesso, che svolse un ruolo chiave anche nella lotta per l’indipendenza del paese. Nell’installazione “Kodi” (codice, per l’appunto), l’importanza delle Nana Benz viene indagata e celebrata attraverso dei negativi fotografici retroilluminati, quasi simili a radiografie. i soggetti dei ritratti sembrano fondersi con lo sfondo, contemporaneamente svelando le trame delle wax prints e creando un senso di mistero, di dissimulazione e una certa voglia di ricerca di qualche particolare che ci possa restituire il significato nascosto di ogni simbolo.

La quinta finalista, Felicity Hammond, si è distaccata dagli altri artisti per l’uso del mezzo fotografico, e forse proprio per questo (o per questioni di spazio) la sua installazione “Autonomous Body”, composta di due parti, è esposta al piano superiore, separata da tutte le altre. L’opera racconta l’evoluzione dell’industria automobilistica attraverso un filo invisibile che unisce passato e futuro: l’estrazione. Ieri si scavava nelle miniere per forgiare motori e carrozzerie, oggi si estraggono dati per alimentare l’intelligenza artificiale dei veicoli autonomi.
Utilizzando intelligenza artificiale e fotocollage, l’artista crea un paesaggio, composto da una grande tela con numerosi elementi materici e una serie di cerchioni, in cui tecnologia e natura si fondono e si consumano a vicenda. La sua opera è una riflessione sul progresso e su ciò che ci lasciamo dietro mentre costruiamo il futuro. Uscendo dalla mostra del MAST Photography Grant, mi ritrovo ancora una volta colpita non solo dalla qualità delle opere, ma anche dalla straordinaria varietà di visioni che un tema comune può generare. Ogni artista lo interpreta attraverso la propria sensibilità e il proprio vissuto, dando vita ad un’esperienza espositiva che merita di essere attraversata con curiosità, sguardo attento e mente aperta.