All’origine del Pride: Sylvia Rivera e la rivoluzione in tacchi a spillo

Attivista trans, sex worker, drag, homeless di origini portoricane e venezuelane, Sylvia Rivera è uno dei personaggi chiave della storia del Pride per come lo conosciamo oggi. Bistrattata e ignorata in vita, osannata e commemorata dopo la sua morte, fu un personaggio controverso dalla vita tumultuosa, nota per aver guidato il gruppo di transgender che per primi ebbero il coraggio di ribellarsi alla polizia durante quella notte di sanguinosa rivolta che passò alla storia come la “Stonewall uprising”, prima vera dura reazione della comunità LGBT+ alla repressione che l’aveva attanagliata fino ad allora, e che segnò la nascita del movimento di liberazione gay moderno in tutto il mondo.

Nata in un taxi parcheggiato di fronte al Lincoln Hospital di New York, il 2 luglio 1951, Ray Rivera Mendozza (ben presto Sylvia) sarà subito abbandonata dal padre divenendo orfana, a soli tre anni, dopo il suicidio della madre. Visse un’infanzia tremenda, travagliata e abbandonata a se stessa, vittima di violenze di ogni genere che la portarono dai 10 anni a vivere in strada, costretta a diventare prostituta abituale nella 42° strada per sopravvivere. Fu allora che entrò in contatto con la comunità drag newyorkese prima e con i gruppi LGBT+ e femministi poi, dai quali fu in qualche modo “adottata” e per i diritti dei quali si batté strenuamente per tutta la vita. 

Si dice abbia dato inizio lei alla protesta quella notte fra il 27 ed il 28 giugno 1969 (data simbolo del Pride in tutto il mondo) allo “Stonewall Inn”, locale gay di New York già meta di numerosi blitz della polizia che era solita irrompere minacciando e arrestando chiunque fosse sorpreso in atteggiamenti, per così dire, “poco virili”.  Ma quella che doveva essere una semplice operazione di routine e concludersi con l’arresto di qualche “deviato”, si scontrò con l’esasperazione di una comunità ormai stanca della repressione e capeggiata da un gruppo di transgender non aveva niente da perdere: un lavoro da mantenere, una casa da difendere e una reputazione da salvaguardare, e che coraggiosamente innescarono una rivolta che durò per giorni e giorni, e nella quale vennero coinvolte più di 2000 persone contro 400 poliziotti. 

Gli “Stonewall Uprising”

La gente dice che sono stata io a buttare la prima molotov”, raccontava, “ma non è vero. Ho tirato la seconda. Qualcuno mi aveva passato una bottiglia di benzina quando qualcun altro lanciò la prima. Non sapevo che fare ed uno accanto a me mi disse: “E’ meglio che la tiri”, ed io l’ho fatto”.

Prima o seconda, poco importa, da quel momento il suo personaggio rimarrà iconicamente  legato al fatto che quella sera, una comunità abituata a vivere nell’ombra, fece una cosa che non aveva mai fatto prima: reagire. La protesta durò diversi giorni, nei quali la polizia fu letteralmente presa in contropiede e travolta da un’inaspettata insurrezione guidata da drag queen in tacchi a spillo e paillettes armate di parchimetri usati come arieti contro gli agenti, battendosi per la rivendicazione del loro diritto all’esistenza, al motto: “Siamo le ragazze dello Stonewall / abbiamo i capelli a boccoli / non indossiamo mutande / mostriamo il pelo pubico / e portiamo i nostri jeans sopra i nostri ginocchi da checche!”

Ma la rivolta, destinata ad allargarsi a dismisura e a coinvolgere sempre più categorie, cambiò aspetto e facciata già dai giorni a seguire, con l’entrata in campo della politica e di quella parte della comunità gay che voleva essere assimilata dalla società e che vedeva nei “gender people” la prefetta onda d’urto per aprire la strada al riconoscimento dei diritti dell’intera comunità, ma da mettere da parte subito dopo, data l’immagine distorta che avrebbero dato del movimento.

Dopo i fatti di Stonewall Sylvia Rivera si unì alla Gay Activists Alliance intorno al 1970 e concentrò il suo impegno nelle lotte per i diritti di tutte le minoranze, costruendo insieme all’amica Marshan P. Johnson, la STAR (Street Transvestite Action Revolutionaries) un gruppo dedicato all’aiuto e assistenza delle persone LGBT+ senzatetto, ma la mancanza di fondi e altri problemi di diversa natura fecero arenare il progetto.

Sylvia Rivera fu spesso usata come apripista e più volte mandata in prima linea nelle manifestazioni più pericolose per poi essere subito allontanata all’arrivo dei giornalisti, isolata, sconfessata, ignorata. Pur rimanendo in contatto col movimento gay, delusa dalla strumentalizzazione prima e dalla presa di distanze poi nei confronti dei transessuali, travestiti e drag queen, nonché dall’esclusione dall’agenda del movimento di temi a lei cari, come l’accettazione e le condizioni delle persone trans, degli homeless, delle sex workers e dei detenuti LGBT+, si allontanò dalla scena politica di quegli anni, limitandosi alla sola partecipazione ai Pride. 

Nel 1973, in occasione del Gay Rally Pride, tra urla, fischi e insulti da parte della folla radunatasi, Sylvia tenne un forte discorso di contestazione della stessa comunità gay criticandola aspramente e manifestando tutta la sua delusione per la discriminazione delle categorie più fragili interne alla comunità stessa, che lei considerava minoranze nella minoranza. 

Dopo una fuga dalla City, tornata a New York per unirsi ai movimenti di sostegno per le persone Hiv+ nella seconda metà degli anni Novanta, visse per anni da homeless vicino allo Huston River Boulevard, tentando più volte il suicidio sentendosi rifiutata ed esclusa dalla sua stessa comunità.

Nel 1994, sempre più delusa dall’emarginazione delle persone transgender da parte della comunità gay, decise, durante il 25° anniversario della rivolta di Stonewall, di mettersi alla testa della cosiddetta marcia “illegale”, un gruppo di manifestanti respinti dagli organizzatori del Gay Pride, consegnando alla storia l’immagine iconica di lei in tacchi a spillo e vestito giallo capeggiare orgogliosamente la parata, contribuendo alla creazione di  quella che poi diventerà la colorata manifestazione inclusiva per antonomasia, il Pride per come lo conosciamo oggi, quale simbolo di libertà di espressione totale dopo secoli di buio e repressione. 

Abbiamo liberato il vostro mondo», gridava contro gli assimilazionisti, “perché ci lasciate sempre in fondo all’autobus?!

Cinque anni prima della sua morte, avvenuta per un tumore al fegato nel 2002, dopo essersi disintossicata, Sylvia Rivera riprese il suo impegno attivo anche all’interno della comunità LGBT+, riaprendo la STAR e dando il suo contributo per far approvare due leggi come la New York City Transgender Rights Bill e la New York State Sexual Orientation Non Discrimination Act, volte a garantire un maggior benessere alla comunità trans emarginata, ancora a fine anni ‘90, dallo stesso movimento LGBT+. 

Passa gli ultimi anni della vita raccontando la sua storia in giro per il mondo, portando avanti la sua battaglia fino a poche ore prima della morte, nel tentativo di esorcizzare quella sensazione di rifiuto e abbandono da parte di una comunità che la guardava ancora con fastidio. Per sua volontà, il suo funerale ebbe inizio la notte del 26 febbraio davanti al vecchio “Stonewall Inn”, dal quale partì un corteo diretto sulle sponde dell’Hudson, dove le sue ceneri vennero sparse insieme a un bouquet di fiori.  

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