Sono passati esattamente dieci anni dalla scomparsa di Angelo Davoli. L’artista reggiano, scomparso nel settembre del 2014 a 54 anni, è stato uno dei protagonisti del rinnovamento della pittura italiana tra anni Novanta e Duemila basato sul recupero e la ridefinizione dei generi tradizionali (sul tema, nel 2000 avevo imbastito una delle mostre in assoluto più visitate al Pac, il Padiglione d’arte contemporanea di Milano: Sui generis, dal ritratto alla fantascienza. La ridefinizione del genere nella nuova arte italiana).
Ineguagliabile cantore di paesaggi urbani, o di quella zona franca, di confine, che si situa tra la città e quello che un tempo era chiamata campagna, sul quale si ergono le sagome dei vecchi capannoni abbandonati, di scheletri di fabbriche, di silos e di ciminiere che nei suoi quadri si stagliano su cieli perfettamente tersi e azzurri come in un quadro sette o ottocentesco, Davoli è stato il testimone del passaggio di un’epoca, del momento in cui le vestigia della modernità lasciavano rapidamente e inesorabilmente il passo a una nuova era per l’umanità: quell’epoca, di cui un artista come lui, scomparso un momento prima della nascita dell’Intelligenza artificiale, ha fatto in tempo solamente a vedere i primordi, i primi assaggi, dove la fabbrica, il modello fordista del lavoro novecentesco, è diventato puro oggetto di memoria, di contemplazione malinconica ed estetica, un ricordo a cui, proprio per lo struggimento che ci provoca per la definitiva scomparsa di un modello estetico e di organizzazione della vita sociale e lavorativa che non ci appartiene più, guardiamo vuoi con struggimento, vuoi con lucida consapevolezza, come al simbolo di ciò che non siamo e non saremo mai più, che il mondo stesso non sarà nai più, che non appartiene più al nostro presente più di quanto non vi appartenga un tram a cavalli ottocentesco.
Oggi, Davoli viene ricordato, al Capannone 17 delle Reggiane Parco Innovazione a Reggio Emilia, con una serata-evento condotta da Fabio Fazio, che si terrà il 10 settembre a partire dalle 18.30, a cui parteciperanno critici, musicisti, scrittori, fotografi, economisti, sociologi, amici che con Davoli hanno collaborato e di cui hanno apprezzato e sostenuto il lavoro nel corso della sua vita e della sua carriera: come il coreografo Mauro Bigonzetti, con cui Davoli aveva collaborato per due spettacoli (InCanto dall’Orlando Furioso e Certe Notti, quest’ultima con la collaborazione per le musiche di Luciano Ligabue), o come il coreografo e danzatore Valerio Longo, ma anche filosofi e pensatori, economisti e persino politici ed europarlamentari, come Romano Prodi o Stefano Bonaccini.
Quello di Angelo Davoli è stato infatti un percorso complesso e articolato, fatto di tante collaborazioni, di lavori a quattro mani, di idee e di scambi anche con persone e artisti che venivano da discipline diverse: perché coi suoi quadri ha saputo colpire nel segno e nell’immaginario di un’epoca in cui non solo l’arte stava cambiando volto, ma la realtà stessa si modificava rapidamente sotto i nostri occhi, e il paesaggio che vedevamo quotidianamente sul nostro cammino ne era una prova tangibile, inesorabile. I vecchi silos abbandonati, le ciminiere che si stagliavano e si stagliano ancora a puntellare quel terrain vague che è divenuta la nostra pianura, le nostre infinite periferie di cui non si riesce più a discernere l’inizio dalla fine, quel paesaggio, fatto d’alberi e di campi e di case, ma anche, sempre più, di anonimi capannoni, di orrendi centri commerciali, di immensi contenitori di servizi, di cosiddetto terziario, e di commercio su larga scala, inframmezzato qua e là da punte di silos o di vecchie ciminiere che svettano alte nel cielo, è la rappresentazione perfetta di un paesaggio che ha perso le sue coordinate con cui lo conosciamo un tempo, che è scomparso come entità a se stante, lasciando il posto a un paesaggio mentale, quello dei nostri ricordi e della nostra memoria cinematografica, pittorica, letteraria.
L’operazione, condotta con grande maestria e sapienza pittorica, di Angelo Davoli è stata allora quella di ricostruire quel paesaggio, come avrebbe fatto un pittore settecentesco, sostituendo i campanili delle chiese, quelle che il narratore della Recherche proustiana ricordava come il simbolo più evidente e palpabile della persistenza della propria infanzia nel suo immaginario di adulto, con le vecchie ciminiere abbandonate, i silos, i corpi delle fabbriche in disuso, simbolo di un’epoca che non esiste già più.
La pittura di Davoli è un simbolo icastico e cristallino della fugacità del tempo, della relatività dei concetti di presente e passato, oltre che della nostra tendenza a stupirci, a commuoverci e a emozionarci di fronte a simboli e feticci che solo ieri ci sembravano come elementi naturali del nostro più privato paesaggio interiore, e oggi non sono diventate altro che metafore delle inconciliabili contraddizioni del contemporaneo.
Nei quadri di Davoli c’è infatti tutto il tentativo dell’uomo di cercare un interlocutore nel cielo come avveniva ai tempi delle grandi cattedrali gotiche, e c’è anche la necessità di dar corpo a uno scontro di volontà e di sentimenti presenti nel cuore della contemporaneità, nella natura addomesticata dell’oggi, dove al profilo dei campanili delle chiese s’è appunto sostituito quello dei silos e delle ciminiere, arrivando al paradosso, per il pittore, di dipingere i cieli direttamente sul corpo di veri silos, nel corso di un’operazione coraggiosa e fuori dalle righe, che rimandava più al classico linguaggio da street artist che a quello da pittore tradizionale, ma che ricorda, per assonanza, anche i lavori che i pittori antichi facevano nel corpo delle chiese, nei suoi absidi e nelle sue navate, e che oggi ricerchiamo invece nelle strade, sui muri, sui cavalcavia, o per l’appunto sulle ciminiere e sui silos abbandonati, vestigia di un’epoca ormai passata.
Le linee singolarmente allungate delle ciminiere di Davoli, le loro punte misticamente protese verso il cielo, il loro carattere ruvido, industriale, di contro alla bellezza e alla forza libera della natura, sono il simbolo di un’epoca in cui lo scontro tra umano e naturale, e tra umano e spirituale, e tra natura e tecnologia, si gioca sul terreno dell’immagine, e non più su quello della religione; di un’epoca nella quale non ci sono più cattedrali da costruire, perché non ci sono più dèi in cui credere, e dove le macerie delle vecchie fabbriche sono diventate, piano piano, materiale buono per i nostalgici dell’oggi, per gli archeologi del domani, per i cantori, come è stato Angelo Davoli, di un senso struggente del sublime contemporaneo: laddove il sublime era, ai tempi della prima rivoluzione industriale, il sentimento del tragico che ci ispirava la consapevolezza di una natura incontaminata che sentivamo fatalmente in via di sparizione sotto i colpi dell’avanzante modernità, oggi non è altro che il sentimento di una nuova consapevolezza, quella della sparizione anche della modernità, sostituita da nuove forme di paesaggio, nuove forme di sensibilità, nuovi intrecci tra natura, umanità e tecnologia di cui ancora non riusciamo a prevedere gli sviluppi né le conseguenze future.
Angelo Davoli, Work in progress 10th – 10 settembre 2024, dalle h. 18.30
Reggiane Parco Innovazione, Capannone 17, Reggio Emilia. Conduce Fabio Fazio