Art Basel 2024, le 10 opere più spettacolari viste a Unlimited. Con i retroscena che nessuno vi ha raccontato

a cura di Alessandro Riva e Paola Martino

Se Art Basel può a buon diritto dirsi il tempio del mercato dell’arte europeo, Unlimited potremmo dire che ne è l’architrave, la sua parte più spettacolare e macroscopica, quella che nessuno può permettersi di mancare. Come ogni anno, Unlimited raccoglie decine di opere di dimensioni “maxi” (quest’anno sono 70), dove sono presenti i più grandi artisti contemporanei, da quelli già ampiamente storicizzati a quelli emergenti, ma dal mercato già solido. Ecco alcune delle opere più belle e spettacolari, selezionate dai nostri contributors, presenti quest’anno ad Unlimited.

1. Keith Haring, Untitled (FDR NY) #5-22, 1984 (Martos Gallery, Gladstone Gallery)

Non possiamo che partire con l’immenso “Untitled (FDR NY) #5-22” di Keith Haring del 1984, che riunisce 18 pannelli dipinti a bomboletta col suo classico e inconfondibile stile, realizzato dall’artista lungo una recinzione della Franklin D. Roosevelt East River Drive, la superstrada che corre per 15 chilometri lungo l’East River, sul lato est di Manhattan. il maxi murale, che si estende per quasi 90 metri di lunghezza, costituisce davvero un unicum, perché viene riunito per la prima volta qua dopo il suo spostamento.

Keith Haring al lavoro sul murale Untitled FDR NY 5 22 Foto Eric Kroll courtesy 99 CENTRI FINE ART

Il murale presentava le tipiche figure di Haring, tra cui persone che ballano e fanno breakdance, il simbolo del dollaro, una figura con la tesa a forma di boombox, il famoso radioregistratore portatile che negli anni Ottanta e Novanta ha fornito la colonna sonora degli ambienti urbani, un cane a due teste che abbaia.

La Franklin D Roosevelt East River Drive a New York

Il murale rimase visibile al pubblico per quasi un anno prima di essere smantellato, e solo oggi, a quarant’anni esatti di distanza dalla sua realizzazione, vede di nuovo la luce nel suo insieme. Un pezzo da museo. Il prezzo? Non proprio una bazzecola: 22 milioni di dollari.

2. Dominique Fung, A Tale of Ancestral Memories (Massimo De Carlo)

A Tale of Ancestral Memories viene descritta come “un’odissea visiva”. È forse, bisogna dirlo, una delle opere più belle che si siano viste quest’anno ad Art Basel. Commissionata dall’Art Production Fund nel 2023 per il corridoio del Rockefeller Center, è composta da 7 parti (30 tele) per una lunghezza complessiva di circa 40 metri, e sembra fondere, in una narrazione continua e ininterrotta, la descrizione di una realtà immaginaria, memorie storiche e famigliari, elementi onirici e figure che sembrano sbucare dal nostro inconscio più profondo, temi quali l’identità femminile, il corpo e il ruolo della donna, lo scorrere del tempo, in un mix di riferimenti storici artistici orientali e occidentali.

Giocando con il canone dell’antico rotolo tradizionale cinese, l’artista, cinese-canadese di seconda generazione, ci immerge in un mondo misterioso, che parte in una scena notturna, con le cosiddette “donne del mare”, che nella tradizione coreana e giapponese, come ha raccontato la stessa artista, si immergevano in apnea, per pescare a mani nude o con alcuni utensili, per nutrire la propria comunità; continuando poi in un convulso e affascinante mescolamento di riferimenti narrativi e mitologici, tra barche-pagode, onde, fiori, animali marini e sottomarini, braccia, mani e piedi (“simbolo del viaggio e del movimento”, spiega l’artista), e poi pesci (“utilizzo il pesce come fonte primordiale come punto di partenza e come modalità predefinita, simbolo di vita e di fortuna”), carri, conchiglie, cavalli.

“Ho dipinto l’intero murale in sequenza dall’inizio alla fine”, ha detto ancora l’artista, “con l’intenzione che i cavalli fungessero da esseri guida per completare l’opera, proprio come farebbero guidaci nell’aldilà… Per me c’è un significato su cui fondo ogni dipinto, ma il finale è aperto. Voglio che lo spettatore entri nel mio mondo e sia aperto alla conoscenza, all’esperienza e alla comprensione”, aggiungendo che “un buon dipinto è come un buon film: ha bisogno di un soggetto, di un contesto, di un sottotesto e di rendere credibile il mondo che sta descrivendo”.

Un’opera straordinaria, che ci trasporta in un mondo incantato, fiabesco, mitologico. “Le nostre memorie ancestrali vengono tramandate attraverso la genetica, influenzando il nostro comportamento e le nostre emozioni”, ha spiegato Dominique Fung. “Credo che questi ricordi ancestrali di fantasmi siano la fonte del nostro trauma, conforto o sollievo, motivo per cui potremmo desiderare un luogo, un oggetto o una persona. Infondiamo e infondiamo ricordi e significato nelle cose e, quando lo facciamo, i ricordi vengono tramandati ai nostri figli. Io ho cercato, con questo lavoro, di portarli alla luce”.

3. Christo, Wrapped 1961 Volkswagen Beetle Saloon, 1963–2014 (Gagosian)

Ricostruzione di una celebre installazione di Christo e Jeanne-Claude del ’63, il “maggiolino impacchettato” ha una storia curiosa. Siamo nel febbraio del 1963, e Christo e Jeanne-Claude stanno lavorando a una mostra personale dell’artista, che si sarebbe dovuta tenere alla Galerie Schmela di Düsseldorf, una delle gallerie d’arte più importanti della Germania del dopoguerra, fondata dal mercante d’arte Alfred Schmela, che nel corso del tempo avrebbe ospitato mostre di artisti del calibro di Joseph Beuys, Arman, Gerhard Richter, Fontana, Robert Indiana, Yves Klein e molti altri. Per l’occasione, Christo e Jeanne-Claude affittarono uno studio in Hüttenstraße 104 (che sarebbe in seguito divenuto sede di una fondazione d’arte, la Zero Foundation, ndr).

Christo Wrapped Volkswagen Project for 1961 Beetle Saloon Collage 2014 pencil wax crayon enamel paint photograph and tape cm 215 x 28 Property of the Christo and Jeanne Claude Foundation Foto André Grossmann © 2014 Christo and Jeanne Claude Foundation

Qui, tra gli altri “impacchettamenti”, Christo ebbe l’idea di coprire coi suoi classici drappi un’automobile, anzi, la più iconica tra le automobili tedesche di quel periodo: il famoso Maggiolino Volkswagen. Al che venne in suo aiuto il regista e videomaker Charles Wilp, che stava seguendo l’artista nella preparazione della mostra, filmando le sue azioni e i suoi impacchettamenti, che chiese ad un amico, l’art director pubblicitario Claus Harden, che ne possedeva uno, se poteva prestarlo all’artista per la sua azione.

Christo and Jeanne Claude nel cortile dello studio temporaneo di Christo in Hüttenstraße 104 durante la creazione di Wrapped Car 1963 Düsseldorf 19 febbraio 1963 Foto Charles Wilp © 1963 Christo and Jeanne Claude Foundation

Christo, all’epoca, non era ancora l’artista famoso che sarebbe diventato in seguito: solo un anno prima, nel 1962, aveva creato scandalo a Parigi col famoso “muro di barili” di rue Visconti, ispirato alla recentissima costruzione del muro di Berlino, con cui l’artista bloccò per alcune ore una strada nel cuore di Parigi con un “muro” di 10 barili di metallo accatastati in mezzo alla via (nell’occasione, Pierre Restany si beccò anche il lancio, dalla finestra di una casa, di un pitale di pipì addosso, che gli rovinò il vestito comprato pochi giorni prima a Milano).

Christo and Jeanne Claude nel cortile dello studio temporaneo di Christo in Hüttenstraße 104 durante la creazione di Wrapped Car 1963 Düsseldorf 19 febbraio 1963 Foto Charles Wilp © 1963 Christo and Jeanne Claude Foundation

Era, insomma, ancora solo un giovane promettente artista d’avanguardia, un po’ matto e spericolato. Per questo, l’art director disse che sì, avrebbe acconsentito a prestare l’auto, ma che poi l’avrebbe logicamente rivoluta indietro debitamente spacchettata, per poterla riutilizzare (in seguito, col senno di poi, raccontò di essersi pentito amaramente di quella scelta, che probabilmente, però, va detto che chiunque avrebbe fatto al suo posto).

L’auto venne portata dunque nel cortile dello studio temporaneo di Christo e Jeanne-Claude in Hüttenstraße, e qui impacchettata, per poi essere portata di fronte alla galleria per l’inaugurazione. Quando la mostra finì, l’auto tornò, come d’accordo, al suo proprietario.

Fu solo nel Nel 2013, quando Christo fece ritorno a Düsseldorf per tenere una conferenza al museo K20, che si ricordò di quel maggiolino, e volle ricreare un’installazione identica. Acquistò quindi un Maggiolino d’epoca color menta, in tutto e per tutto simile all’auto di Harden, e l’anno successivo lo impacchettò. Nacque così l’opera che vediamo esposta oggi fiera.

4. Yayoi Kusama, Aspiring to Pumpkin’s Love, the Love in My Heart, 2023 (David Zwirner)

La maxi-zucca esposta ad Art Basel fa parte di una serie di sculture in bronzo esposte per la prima volta nel 2023 a New York, alla mostra “I Spend Every Day Embracing Flowers” presso la galleria David Zwirner, a New York. “Adoro le zucche per la loro forma divertente, la sensazione di calore e una qualità e una forma simili a quelle umane”, ha detto qualche anno fa Yayoi Kusama. E infatti, sono migliaia le zucche che l’artista ha realizzato nel corso degli anni, e che i collezionisti si contendono quotidianamente in tutto il mondo (anche a prezzi limitati, nella forma di edizioni aperte o di ampia o di tiratura).

Particolarità della scultura, è proprio la sua forma: mentre, solitamente, le zucche dell’artista hanno forma sferica o semisferica, insomma quasi realistica pur nella tipica stilizzazione dell’artista (e naturalmente ricoperte di pois, ossessione che l’artista ha assunto da bambina, quando trascorreva molte delle sue ore di veglia fissando il numero apparentemente infinito di ciottoli bianchi sul letto del fiume vicino a casa sua.), questa ha invece un andamento allungato, morbido, sinuoso. E naturalmente maxi. La scultura è stata venduta il giorno stesso dell’inaugurazione. Prezzo: non proprio per tutte le tasche: 5 milioni di dollari.

5. Salvo, Il trionfo di San Giorgio, 1974 (Mazzoleni)

Non può che rendere felici la presenza di un artista italiano di grande spessore come Salvo nella tribuna più importante di ArtBasel. Per di più, con un’opera straordinaria e di fortissimo impatto visivo come la grande tela, alta oltre 2,5 metri e lunga 8 metri, realizzata dall’artista nel 1974 e dichiaratamente ispirata agli episodi delle storie di San Giorgio dipinti da Vittore Carpaccio, commissionati all’artista dalla Scuola di San Giorgio degli Schiavoni di Venezia tra il 1502 e il 1507.

Il telero del pittore veneziano tela raffigurava il secondo di tre episodi delle storie di San Giorgio, il Trionfo di Sam Giorgio (gli altri due sono San Giorgio e il drago e il Battesimo dei seleniti), quando il cavaliere, futuro martire cristiano, dopo aver sconfitto il drago e liberato la principessa, è accolto nella città di Selene, dove è onorato dai sovrani. La scena dipinta da Carpaccio mostra Giorgio che porta il drago ammansito nella città per decapitarlo definitivamente, circondato dai seleniti in abiti esotici e dai monumenti cittadini decorati in stile veneziano, mentre, sullo sfondo, si intravedono colline digradanti illuminate dalla foschia sotto un cielo azzurrino punteggiato da leggere nubi.

Salvo Il trionfo di San Giorgio 1974 particolare Courtesy Mazzoleni

Nella sua interpretazione del dipinto di Carpaccio, Salvo semplifica la narrazione e rielabora la paletta cromatica, enfatizzando i gruppi di figure e animali in primo piano su un prato verde pastello, eliminando lo sfondo urbano e i personaggi secondari e introducendo invece una bassa catena montuosa all’orizzonte. Una luce fredda e uniforme pervade la scena, cancellando le ombre e creando un’atmosfera priva di contrasti. Spariscono anche le architetture urbane, compreso il tempietto, chiaramente ispirato a Piero della Francesca. “Mi interessava”, ha spiegato l’artista in una conversazione con Laura Cherubini, “il significato simbolico della figura dell’uomo che combatte contro il drago”, una figura trasversale rispetto alle diverse tradizioni culturali: tant’è vero che, aggiunge l’artista, “esiste anche nella mitologia greca, nella religione cattolica, ma anche nell’arte cinese”. L’opera rappresenta un punto centrale nella ricerca artistica di Salvo negli anni Settanta, esplorando tematiche legate al rapporto con la tradizione e alla rielaborazione delle opere dei grandi maestri della storia dell’arte, togliendo narratività alla scena e concentrandosi unicamente sugli aspetti formali e sui riferimenti alla storia dell’arte, testimoniati dall’uso dei colori, del tutto innaturali (come il violetto e il color malva), presenti nelle opere degli artisti rinascimentali ma mai in natura.

Salvo 1947 2015 San Giorgio e il drago 1976 olio su tela cm 73×60 Courtesy Mazzoleni

L’opera fa parte di un ciclo di lavori che guardavano alla tradizione rinascimentale, che l’artista eseguì nel 1974, in accordo con i suoi intenti, di natura concettuale, di rivisitazione e riflessione sulla storia dell’arte e la sua iconografia. L’occasione era stata data dalla sua partecipazione alla rassegna Projekt ’74, allorché l’atista chiese di non esporre, come gli altri artisti, alla Kunsthalle, ma di avere una  propria sala al Wallraf-Richartz, museo d’arte medievale e moderna della città, e di poter scegliere un’opera per ciascun secolo, dal Trecento all’Ottocento, in modo da poptersi confrontare con le opere storiche. Tra le altre opere di questa serie, realizzò un d’après del San Martino che divide il mantello con un mendicante di El Greco, da cui prese a prestito il soggetto principale nonché i colori di alcuni particolari, come il verde acido del drappo, riducendo fortemente, anche in questo caso, la dimensione narrativa del dipinto, eliminando i personaggi secondari e semplificando al massimo la composizione. All’interno di questa serie, comparve anche un San Giorgio e il drago, del 1976, ispirato a Raffaello.

Salvo Il trionfo di San Giorgio 1974 particolare Courtesy Mazzoleni

Il Trionfo di San Giorgio è stato esposto alla Galleria Franco Toselli di Milano nel 1974 e successivamente alla 37ª Biennale di Venezia. Oggi viene ripresentato ad Art Basel, restituendo a Salvo un posto centrale nell’arte italiana del secondo Novecento.

6. Chiharu Shiota, The Extended Line (Templon)

Classe 1972, Chiharu Shiota è giapponese di nascita, ma di stanza a Berlino, ed esplora la sensazione di “presenza nell’assenza” con le sue installazioni, nelle sue sculture, disegni, video performance, fotografie e tele. Si ispira spesso alle sue esperienze, che sono poi quelle universali come la vita, la morte e le relazioni. Ha ridefinito il concetto di memoria e coscienza collezionando oggetti comuni come scarpe, chiavi, letti, sedie e vestiti e inghiottendoli in immense strutture filiformi. Nelle sue installazioni, utilizzando filati intrecciati, combina performance, body art e installazioni in un processo che pone al centro il corpo.

Chiharu Shiota gioca con le nozioni di temporalità, movimento e sogno e richiede un duplice coinvolgimento da parte dello spettatore, sia fisico che emotivo. Le sue opere sono state esposte in tutto il mondo, nel 2015 Chiharu Shiota aveva rappresentato il Giappone alla Biennale di Venezia con la sua straordsinaria installazione The Key in the Hand. Utilizzando due barche, grandi quantità di filo rosso, una rete di metallo intrecciata, e più di 50.000 chiavi, aveva inscenato un’esibizione destinata ad ispirare gli spettatori a riflettere sull’importanza dei ricordi e dell’ignoto. Le chiavi, donate da persone di tutto il mondo, rappresentano un oggetto in grado di proteggere le cose importanti di ogni individuo, un simbolo che apre e chiude le porte a mondi sconosciuti, e simboleggiano anche l’intimità di una persona, la sua storia, i suoi segreti, i ricordi, e la memoria.

Tornano oggi, anche per l’installazione di Art Basel, i fili intrecciati di Shiota. La storia che ci racconta questa volta è molto personale, ma come sempre universale, trasmette Shiota la sua esperienza di sopravvissuta al cancro. “Cosa significa essere umani? Sto facendo domande con cui credo che tutti abbiano a che fare durante la loro vita, e non arrivo a una conclusione chiara”, ha raccontato. “Credo nella forza di porre queste domande insieme. Anche se non abbiamo una risposta, proviamo ancora le stesse sofferenze, rimpianti e gioie nella vita”.

Una pioggia di fili rossi pendono dal soffitto, in questa installazione di 9 metri x 16: unavera e propria pioggia filante che si riversa in una fusione in bronzo delle mani aperte dell’artista, da cui volano migliaia di fogli bianchi, farfalle che si affollano nel cielo. L’artista invita a immergersi in un’opera d’arte che abbraccia e ispira, provocando riflessioni profonde sulla vita, la morte, le emozioni e le relazioni con gli altri. Attraverso una narrazione che fluttua tra il mondo interiore e quello esteriore, l’artista crea infatti un viaggio continuo che tocca il cuore e la mente, che trascende i confini del tempo e dello spazio, esplorando la complessità dell’esperienza umana, sottolineando le gioie e le sofferenze condivise dell’umanità. Shiota, nota per le sue installazioni evocative, continua a esplorare la presenza nell’assenza, rendendo il suo lavoro profondo e stimolante.

7. Faith Ringgold, The Wake and Resurrection of the Bicentennial Negro, 1976 (Goodman Gallery e ACA Galleries)

Faith Ringgold nata a New York nel 1930 è da poco scomparsa, nell’aprile di quest’anno, è stata una delle figure della cultura afroamericana più influenti della sua generazione, il suo lavoro riflette il suo attivismo e la sua storia personale. Con una carriera di più di sessant’anni, Ringgold è conosciuta per le sue potenti opere fondate sui temi di razza, genere, classe, famiglia e comunità declinati in pittura, scultura, installazioni e performance.

Il suo impegno politico nasce nei primi dipinti alla fine degli anni sessanta che approfondivano le relazioni tra persone nere e bianche e tra uomini e donne. Per l’artista arte e attivismo erano un tutt’uno senza possibilità di scissione, a lungo sostenitrice dell’inclusione di opere dei neri e delle donne nelle collezioni dei principali musei americani.

La Ringgold era conosciuta soprattutto per i lavori che chiamava quilts narrativi, coperte trapuntate composte da strati di tessuto imbottiti e cuciti insieme, che raccontano la quotidianità della vita dei neri e in particolare delle donne, celebrando la loro capacità di trascendere le circostanze con l’arte del sognare. Il quilt più celebre è Tar Beach, del 1988, la storia di una famiglia nera che si raccoglie attorno a un picnic e dorme sul tetto del loro appartamento ad Harlem in una calda notte d’estate.

L’opera esposta in Unlimited di Art Basel The Wake and Resurrection of the Bicentennial Negro racconta la storia di Buba, morto per overdose, e di sua moglie Bena, che subito dopo muore di dolore. Entrambi i defunti vengono pianti dai loro parenti e conoscenti, ma l’artista lascia capire che i due tornano ad una nuova vita, Buba libero dalle droghe e Bena con una maggiore consapevolezza di sè. Ringgold offre una narrazione drammatica per riflettere sulle dinamiche del razzismo. La dipendenza dalla droga era parte anche della sua esperienza personale inoltre il suo primo marito e suo fratello sono morti di overdose, un problema che affligge la comunità afroamericana.

Nell’installazione le figure principali Bena e Buba sono circondati da fiori e giacciono su una bandiera con i colori panafricani rosso, nero e verde che la madre di Ringgold aveva imbottito e trasformato in un “cuscinetto rinfrescante” per i cadaveri. Due donne in lutto elegantemente vestite piangono lacrime di strass e paillettes. Durante lo spettacolo, Ringgold riproduceva le registrazioni del discorso di Martin Luther King “I Have a Dream” e gli inni eseguiti dall’Abyssinian Baptist Church Choir come Amazing Grace e He Arose. Durante le installazioni precedenti la Ringgold amava coinvolgere le persone del luogo per comprendere i molteplici modi di reagire alla morte.

Il contributo di questa artista all’arte e alla storia dell’arte è stato purtroppo riconosciuto tardivamente, grazie ad un’importante mostra del Museum of Contemporary Art di Chicago – la sua mostra più completa fino ad oggi – che si è conclusa poco prima della sua morte nella primavera del 2024.

8. Jannis Kounellis, Senza Titolo (Vele), 1993 (Kewenig)

Un’altra opera di un artista italiano, le celebri Vele di Kounellis. Realizzata per la Biennale del 1993, questa installazione si rifaceva alla storia marinara di Venezia e alle sue interazioni con il Mediterraneo. Il senso profondo dell’opera si manifesta come un labirinto simbolico e tangibile, un luogo in cui perdersi o ritrovarsi, perpetuando un viaggio percettivo che si riallaccia inevitabilmente al dramma dei migranti che negli ultimi anni sempre più spesso trovano la morte in mare, proprio nel Mediterraneo.

La storia e le storie dei popoli, la cronaca di ogni giorno si intreccia così con la mitologia, e la cultura materiale si fonde con la presentazione scenica dell’idea del viaggio. Il dedalo di vele realizzato da Kounellis rappresenta un gioco di pesi che seguono la naturale forza di gravità, ma sfuggono a una linearità prospettica e percettiva determinata da un unico punto di vista. Ci confondono e ci fanno immaginare di aver trovato un casa dove ripararci, proprio nel luogo simbolico in cui i migranti, preso il mare per trovare un’altra casa per sfuggire a guerre e povertà, rischiano ogni giorno di trovare invece la morte.

9. Henry Taylor, Untitled, 2022 (Hauser & Wirth)

Tra le opere fortemente politiche di questa edizione di Untitled, ecco l’installazione di Henry Taylor: 35 manichini a grandezza naturale, in piedi davanti a uno striscione con scritto ” NO WAR AND RACISM!!!”, e “Support the Black Panthers “.

Alcuni indossano la tipica divisa dei membri delle Pantere Nere, altri invece hanno abiti più contemporanei (inclusa la maglia dei San Francisco 49ers dell’attivista per i diritti civili ed ex giocatore di football Colin Kaepernick).

Sopra di loro fluttuano guanti di pelle nera, alzati in pugni spettrali di solidarietà. I manichini recano anche fotografie di vittime recenti di violenze delle forze dell’ordine. Henry Taylor, un artista di Los Angeles solitamente noto per i suoi dipinti figurativi, rende qui un drammatico omaggio alle Pantere Nere e, in particolare, a suo fratello Randy, un membro attivo del movimento, che ha instillato in Taylor una consapevolezza politica e un rispetto profondo per l’attivismo. “Ci ha reso tutti più politicamente consapevoli. E ho letto tutto quello che ha letto lui – compresi i testi degli attivisti dei nativi americani come Russell Means e Leonard Peltier – perché volevo essere proprio come lui”, ha spiegato Taylor. L’installazione era già stata esposta per la prima volta nella mostra “Henry Taylor: B Side” al Museum of Contemporary Art di Los Angeles nel 2022 e successivamente al Whitney Museum of American Art.

Mario Ceroli, Progetto per la pace, 1968 (Cardi)

Last but not least, ecco un’altra bella installazione di un artista itliano: Mario Ceroli, negli ultimi tempi, per fortuna, in via di grande riscoperta. Concepito originariamente nel 1968, Progetto per la pace è una delle opere di scultura ambientale più potenti dell’artista abruzzese. L’installazione, composta da 365 bandiere di seta bianca pieghettata, ciascuna alta quattro metri, è piantata su una vasta area di terra ricoperta di sabbia. Le bandiere, ognuna per ogni giorno dell’anno, creano una selva di aste di legno che si estendono verso l’alto, invitando gli spettatori a volgere lo sguardo verso il cielo per apprezzarne l’intera portata.

La precarietà delle bandiere, piantate in un elemento instabile come la sabbia, conferisce loro inclinazioni leggermente differenti, rendendo l’installazione delicata e grandiosa allo stesso tempo. Le bandiere incolori offrono una visione di pace che trascende i confini nazionali, creando uno spazio di apertura, possibilità e dialogo. Questa combinazione di monumentalità e fragilità sottolinea l’idea di una pace che deve essere costantemente affermata e assicurata, simile a una foresta di speranza e libertà. Un messaggio quantomai attuale, in tempi in cui le fanfare della guerra suonano con sempre maggiore insistenza…

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