“Pura demagogia. Il padiglione israeliano è extraterritoriale, non c’era quindi alcuna possibilità di escludere Israele dalla Biennale”. Così Davide Blei, collezionista, membro del Board della Peggy Guggenheim Collection di Venezia e Presidente di AIMIG (Amici Italiani del Museo d’Israele di Gerusalemme), che in esclusiva per Artuu Magazine ha rilasciato un suo commento sulla richiesta del collettivo Art Not Genocide Alliance in una lettera alla Biennale di Venezia firmata da più di 12mila fra artisti e curatori, istituzioni ed enti culturali, intellettuali e operatori di settore, di negare a Israele il Padiglione ai Giardini per il “genocidio” che Tsahal starebbe mettendo in atto a Gaza: “Noi sottoscrittə chiediamo l‘esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia. Mentre il mondo dell’arte si prepara a visitare il diorama degli stati-nazione ai Giardini, affermiamo che offrire un palcoscenico a uno Stato impegnato in continui massacri contro il popolo palestinese a Gaza è inaccettabile. Il massacro israeliano a Gaza, che dura da diversi mesi (e che in realtà si protrae da molti decenni), continua senza sosta, mentre il governo israeliano proclama di essere al di sopra del diritto internazionale e dichiara risolutamente il suo intento genocida” (anche in Italia, c’è però chi ha condiviso questa scelta, soprattutto tra artisti e intelelttuali da sempre vicini alla causa palestinese, in un altro articolo diamo testimonianza di queste posizioni, ndr).
Richiesta irricevibile finita in cavalleria, la risposta della Biennale è stata netta: “Non consideriamo petizioni. Impossibile escludere un Paese estero. La Biennale, di conseguenza, non può prendere in considerazione alcuna petizione o richiesta di escludere la presenza di Israele o Iran” (sì, infatti qualche altro volenteroso carnefice della libertà d’espressione artistica per controbilanciare la richiesta di Art Not Genocide Alliance voleva anche l’esclusione dell’Iran dai Giardini). Questo, anche grazie all’intervento del Ministro Sangiuliano, entrato a gamba tesa nella querelle mettendo tutti in riga.
“Concordo al 100% con il Ministro”, prosegue Davide Blei, “escludere Israele sarebbe stata pura demagogia. Il padiglione israeliano è extraterritoriale, non c’era quindi alcuna possibilità di escludere Israele dalla Biennale”. Anche escludere la teocrazia di Teheran sarebbe stato pura demagogia? Blei la chiude in assoluta coerenza: “Assolutamente sì. L’Iran è libero di presentare i suoi artisti, così come io sono libero di non andarci”.
Ci avevano provato nel 2015 a boicottare Israele e allora l’iniziativa arrivava nientemeno che della UE, con i burocrati bruxellesi che volevano l’etichettatura sui prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nel Golan e in Cisgiordania, roba che non accadeva dai tempi di Hitler. Nove anni dopo, qualche intellò con le terga al calduccio ha voluto riprovarci. Forse dalla Biennale potevano spendere qualche parola in più a favore della libertà d’espressione ma pazienza: la cultura non dipende dai governi che vanno e vengono, si può essere in disaccordo o in accordo con la strategia messa in atto da Netanyahu ma la presenza di Israele alla Biennale non c’entra niente, come la presenza dell’Iran alla Biennale non c’entra con il regime teocratico: se un artista è bravo merita di essere alla Biennale, indipendentemente dalle sue idee politiche.
L’artista Tobia Ravà al Corriere del Veneto ha rilasciato una dichiarazione di buon senso: Israele è l’unica democrazia dell’area, il dissenso è legittimo, la politica di Netanyahu è sbagliata, gli artisti israeliani non sostengono il governo e bloccando il Padiglione si zittirebbero le voci discordanti verso Netanyahu. Il governo di Israele non è il popolo di Israele, dice Luca Beatrice, idem per Iran e Russia: avanti di questo passo, anziché una Biennale di tensioni artistiche avremmo una Biennale di tensioni politiche, cosa di cui non si sente il bisogno perché a rimetterci, secondo Nicola Verlato, sarebbe il dibattito stesso sull’arte, anche di fronte a Paesi che sono oggetto di polemica come appunto l’Iran. “Anch’io sono d’accordo che tutti i padiglioni devono restare aperti ed essere casomai gli artisti e curatori israeliani in questo caso a decidere se partecipare o meno, come accadde con il Padiglione Russo nella scorsa Biennale”, aggiunge Giacinto Di Pietrantonio. “Questo non vuol dire appoggiare o meno Israele o la Palestina, ma rispettare la decisione degli artisti e curatori israeliani che devono decidere in autonomia come e se partecipare. Ricordo che, fatte le dovute differenze, nella Biennale del 1969 Pino Pascali si rifiutò di non esporre i sui lavori e men che meno di girarli come fecero in molti o come voleva la maggioranza dei contestatori, adducendo che era proprio il mostrare l’arte la forma più alta di contestazione e di libertà. Come sappiamo la storia ha dato ragione a Pascali”.
Che caos. È forse il riflesso di un’epoca? “È un’epoca estremamente ideologizzata”, ci dice l’artista Barbara Nahmad. ”Nessuno si ferma più a pensare. Sei costretto a prendere posizione in modo assolutamente ideologico. Forse è anche una conseguenza della cancel culture e dell’ideologia woke, alla fine esistono solo fazioni: secondo me si è perso un certo rigore, è una barbarie”.
Barbarie che non fa rima con la parola complessità. Anche Martina Corgnati ha accettato di parlare con Artuu e dice la sua: “Il mio parere è molto semplice, non puoi boicottare la cultura, non puoi boicottare l’intelligenza, il dialogo e qualunque forma democratica e civile di relazione dialettica. Penso che sia proprio la voce della cultura (e la cultura dell’arte) ad esprimere la complessità di una situazione”. Vale anche per l’Iran? “L’Iran non è un paese libero, però se c’è qualcuno che può esprimere una forma di libertà questi sono proprio gli artisti. Bisogna vedere come si applica la censura su di loro in un paese come l’Iran, abbiamo ben visto cosa è successo alle donne che manifestavano semplicemente per un velo messo male. Se una voce può esprimere la complessità di una situazione e quindi delle prospettive di cambiamento, questa è proprio la cultura”.
Quanto accaduto il 7 ottobre 2023, quando i miliziani di Hamas hanno ammazzato e sequestrato giovani che volevano solo divertirsi in un rave, è orrendo come è orrendo quanto sta accadendo a Gaza in seguito alla decisione del governo Netanyahu di eliminare Hamas: è vero, Tsahal avvisa la popolazione degli imminenti attacchi, ma come in tutte le guerre non ci sono né buoni né cattivi, alla fine diventano tutti cattivi e a pagare sono i civili (e i soldati). Ecco che allora boicottare un Paese (e quindi gli artisti) significa boicottare la cultura.
Ė vero che una certa scelta denota una rappresentazione del Paese ma, come ci ha detto il gallerista Federico Rui, la Biennale non invita i governi bensì i popoli: “Non si identifica un artista con il governo che lo rappresenta. Quello che vedremo al Padiglione Israele alla Biennale magari sarà espressione di una forte contrarietà alle decisioni governative. Detto questo, la Biennale non espone l’espressione ufficiale di un governo, ma invita un popolo ad esprimere la propria arte. E l’arte spesso è in contrapposizione con l’ideologia politica. L’esclusione di Israele sarebbe stata una punizione nei confronti di artisti che magari non hanno nulla a che vedere con le posizioni del governo”. Vale anche per l’auto-esclusione della Russia due anni fa?. “Non possiamo definire la Russia un paese democratico. Far tacere le voci di libertà è stato non solo una auto-esclusione, ma anche una censura nei confronti di voci artistiche dissonanti”.
Una censura che diventa anche auto-censura degli artisti invitati alla Biennale: ce ne fosse stato uno, come ha scritto Francesco Bonami sul Foglio, che avesse voluto ospitare l’intervento di un artista palestinese nel suo padiglione. E allora, se l’arte e la cultura “non sanno fare casino quando ne hanno l’occasione, non servono a nulla”. A questo punto, meglio una Biennale del Dissenso sul modello del formidabile (o famigerato, dipende dai punti vista) 1977, ma forse davvero oggi non v’è il bisogno di una Biennale di tensioni politiche anziché artistiche. Così la pensa Ermanno Tedeschi contattato da Artuu, già gallerista e oggi curatore e critico d’arte: “penso che l’arte debba stare lontana dalla politica. Alla Biennale non mancano i Paesi con problemi di libertà, come l’Iran e alcuni paesi africani, ma tutti hanno il diritto di essere presenti. Escludere Israele dalla Biennale sarebbe stata una posizione assolutamente strumentale e ingiustificata. La politica è un’altra cosa, Israele è piena di artisti in disaccordo con il governo: una cosa è Israele, una cosa è il governo. La Biennale del dissenso? Non ne penso nulla. Non vedo perché debba esserci. Alla Biennale devono esserci tutti i Paesi, ognuno con le sue storie e le sue problematiche, compreso l’Iran”.