Captain America: Brave New World e il lento tramonto del Marvel Cinematic Universe

C’è un momento, nella vita di ogni grande impero, in cui la gloria si sfilaccia, i vessilli si impolverano e i sovrani, una volta venerati, diventano marionette incapaci di reggere il peso della loro stessa leggenda. Non arriva mai con un boato ma con un sussurro: una nota stonata in una sinfonia un tempo perfetta, un gesto ripetuto senza più convinzione. Così muore un’epoca, non con una battaglia epica, ma con il rumore sommesso della ruggine che si insinua tra gli ingranaggi.

Il Marvel Cinematic Universe è stato, per oltre un decennio, il faro del cinema popolare, l’architrave su cui poggiava l’industria hollywoodiana. Ogni film era un tassello di un disegno più grande, un’operazione di costruzione mitologica degna delle grandi epopee. Poi è arrivato il vertice assoluto, Infinity War ed Endgame, il culmine di un’architettura narrativa che aveva saputo tenere insieme eroi e generazioni, spettatori casuali e fanatici devoti. E dopo l’apoteosi, il vuoto.

Non un vuoto immediato, ma una discesa lenta, quasi impercettibile, come un corpo celeste che ha smesso di brillare senza che nessuno se ne accorga davvero. Il tentativo di esplorare nuovi territori si è infranto contro l’inerzia di una macchina produttiva che non sa più fermarsi. 

Alcuni bagliori di genio sono affiorati qua e là—l’illusione metacinematografica di Wandavision, il sentimentalismo nostalgico di Spider-man: No Way Home—ma sono annegati in una marea di prodotti senz’anima, serializzati fino all’estinzione del senso di meraviglia. Ora, Captain America: Brave New World arriva come l’ennesima iterazione di un ciclo che si ripete senza convinzione, un respiro affannoso di un gigante che non vuole ammettere di essere stanco. Ma non è solo un film deludente: è il riflesso di un universo che ha smarrito la propria identità.

Un tempo, Captain America era il cuore pulsante della Marvel. Un’icona ambivalente, capace di incarnare la speranza e il dubbio, l’eroismo e la disillusione. Con l’addio di Steve Rogers, la sua eredità è passata a Sam Wilson, un personaggio che avrebbe potuto ridefinire l’ideale stesso dell’eroe americano. Ma il film non sa cosa fare di lui. Anthony Mackie è lasciato a galleggiare in una sceneggiatura che non gli concede il carisma necessario, un comandante senza esercito, un simbolo che nessuno sembra davvero voler seguire.

Attorno a lui, la Marvel convoca un pantheon di comprimari che dovrebbero rafforzare il nuovo corso del franchise, ma finiscono per essere ombre di se stessi. Harrison Ford, titano del cinema, viene arruolato nel ruolo di Thaddeus Ross, ora presidente degli Stati Uniti, ma la sua presenza è solo un’ombra circospetta: il peso del suo nome non basta a mascherare la stanchezza della sua interpretazione. Ford non domina la scena, la attraversa con la svogliatezza di chi sa di non essere nel posto giusto.

La storia, che vorrebbe riallacciarsi alla grande tradizione del thriller politico marveliano—quella di The Winter Soldier, per intenderci— è invece un intreccio scollegato, che parla senza dire nulla, che evoca trame cospirative senza mai affondare il colpo. Un tempo, la Marvel sapeva leggere il presente e riscriverlo in chiave epica. Oggi, la politica del film sembra appartenere a un mondo che non esiste più, una replica fuori tempo massimo di un discorso già superato.

L’universo Marvel si è sempre fondato sull’idea di connessione, sull’illusione che ogni film fosse un frammento di una storia più grande. Era un meccanismo perfetto: ogni capitolo lasciava qualcosa in sospeso, un dettaglio da scoprire nel film successivo, un enigma che spingeva il pubblico a tornare in sala. Oggi, questa interconnessione non è più un valore aggiunto, è un’ossessione che soffoca ogni singola narrazione.

Le citazioni non sono più inviti a esplorare, ma catene che imprigionano i film in una ripetizione senza via d’uscita. I rimandi al passato non creano più entusiasmo ma solo fatica. E Brave New World è l’esempio perfetto di come la Marvel non riesca più a bilanciare il peso della sua stessa mitologia.

Non c’è più leggerezza, non c’è più il senso di avventura che animava anche i capitoli minori. Il divertimento si è spento, l’ironia si è dissolta, il fascino visivo è diventato un ricordo. Persino gli effetti speciali, un tempo il marchio di fabbrica dello studio, appaiono privi di brillantezza, opachi, figli di una produzione che sembra essersi arresa alla mediocrità.

Con la fase sei all’orizzonte, e con I Fantastici Quattro – Gli inizi pronto a rilanciare l’ennesima nuova era, la domanda non è più se la Marvel riuscirà a risollevarsi. La domanda è: il pubblico ha ancora voglia di seguirla? La sensazione che Brave New World lascia non è solo quella di un film mediocre, ma di un universo che ha smesso di evolvere. Se Endgame era stato un commiato perfetto, il Marvel Cinematic Universe non ha saputo riconoscerlo come tale. Ha continuato a esistere per inerzia, cercando di replicare formule ormai svuotate, incapace di accettare che forse il tempo della meraviglia è finito.

Forse, un tempo, la Marvel avrebbe avuto la forza di reinventarsi, di trovare una nuova via per emozionare e sorprendere. Oggi, invece, sembra essere rimasta prigioniera di se stessa, come un re decaduto che continua a indossare la sua corona senza accorgersi che il suo regno è ormai un ricordo.

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