Sunday: questo è il titolo della mostra di Maurizio Cattelan a cura di Francesco Bonami inauguratasi il 30 aprile da Gagosian a New York. Il confine tra denuncia ed esaltazione della violenza è sottile. Anche se Cattelan insiste che il suo lavoro, la prima mostra personale in una galleria newyorchese, dopo la retrospettiva All al Guggenheim, sia una risposta alla violenza quotidiana in cui tutti noi siamo immersi, anestetizzati da quel sottofondo di morte che ci accompagna attraverso i media e a cui abbiamo fatto purtroppo abitudine. Ma Cattelan non è certo un artista della domenica, come vorrebbe far intendere provocatoriamente il titolo della mostra.
Dietro lo scintillio seducente della parete che funge da sipario, da soglia, è meglio non vedere. È un campo minato verticale che splende risucchia e deforma, e tutti lo vorrebbero attraversare. Non ci resta che farci un selfie per avere l’illusione di addentrarci nell’opera. Un Sunday Bloody Sunday, ci aspetta dietro la realtà placcata d’oro. Cinque metri di altezza per 20 di lunghezza, la grande parete è composta da sessanta pannelli crivellati da fori di proiettili, si estende frontalmente, come una porta di una grande cattedrale di fronte al quale si rimane ammutoliti.
Da Gagosian c’è ancora poca gente, ma tra poco la sala si riempirà del variopinto mondo artistico newyorchese, che una mostra così non se la lasciano di certo scappare. Artisti italiani, devo dire, se ne vedono pochi ahimè sulla scena newyorchese e Maurizio Cattelan tiene alta la nostra bandiera.
L’artista ha in mano un grosso timbro e noto che molti dei presenti si fanno “marchiare” varie parti del corpo, c’è chi si fa tatuare sul collo, chi sulla pancia, chi sulla schiena, un gioco divertente , ma con una scritta che la dice lunga sul messaggio che vuol dare Cattelan. Vabbè mi faccio tatuare anch’io per provare il brivido di avere un’opera provvisoria stampata sulla pelle (varrà qualcosa?). Almeno la sua foto!
“Beware of yourself” ovvero fai attenzione a te stesso, perché il mostro della violenza è dentro ciascuno di noi, nessuno è totalmente buono o cattivo, nessuno si può chiamare fuori.
La stampa qui a New York, dai commenti che si leggono sui vari giornali, celebra da una parte il genio l’artista che con le sue opere muove milioni di dollari ogni volta, dall’altra però è critica e scettica sul reale valore in quanto non c’è niente di nuovo come linguaggio artistico e come non citare Lucio Fontana, oppure Chris Burden, a cui l’artista ha dichiarato palesemente di essersi ispirato? C’è anche chi è andato oltre e ha visto più che delle similitudini, accostando le opere di Anthony James esposte a New York da Opera Gallery a quelle di Maurizio Cattelan, anche queste di James realizzate crivellando superfici di acciaio. E poi c’è la faccenda della violenza, certo, la povertà e la miseria, e ci chiediamo se in realtà abbiamo bisogno di monumenti alla crudeltà, al male, alla follia: non ci rimane altro che celebrarla e percepirla come seduttiva?
La scultura in marmo, Novembre, posta davanti alla grande parete riflettente, rappresenta un uomo disteso sulla panchina, un uomo che ha perso la propria dignità, un uomo malato o disperato, un senza dimora che urina per terra.
Guardiamo, fotografiamo questo soggetto e ci stupiamo come extraterrestri di fronte a un essere alieno. Mentre fuori, basta girare l’angolo e trovare la realtà: dove non c’è compassione, c’è invece la cosa più atroce: ancora una volta l’abitudine alla mancanza di dignità. Se non altro, è una comunicazione che tiene ancorati al presente, e visto che il male non lo possiamo controllare è meglio che l’arte lo trasformi, lo renda seducente.
Maurizio Cattelan va contro un pensiero globalista politically correct dove in realtà poi l’artista conta poco, importanti sono i contesti e chi decide le strategie. E Cattelan non è affatto un burlone, un joker, ma è un artista davvero libero e indipendente. A contare sono sempre e comunque le idee.