Nel 2013 Massimiliano Gioni – con un certo ottimismo – intitolava la sua 55° Biennale Il palazzo Enciclopedico, ispirandosi all’artista Marino Auriti e in particolare al suo museo immaginario, che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’Umanità.
Due anni dopo, nel 2015, arriva l’algido Okwui Enwezor con All the World’s Futures e nelle interviste spiega il titolo della sua mostra con immagini catastrofiche di un futuro possibile (e anche le opere, in effetti, non le ricordo proprio allegre). Poi, come una folata di brezza, ecco apparire nel 2017 Christine Macel: charme parigino e un’allegria sottopelle che sprizza già dal titolo – Viva arte viva – e che si irradia dai materiali e dal colore. Ralph Rugoff, diciamocelo, un po’ ce l’ha tirata, perché aveva un bel dire, a chi glielo chiedeva, che quel May You Live In Interesting Times non era, come qualcuno pretendeva, una maledizione cinese, ma al contrario un invito benaugurale come un simpatico biscotto della fortuna a fine pasto. Chissà come mai però, poi, una manciata di mesi dopo la chiusura della sua Biennale, proprio dalla Cina è arrivato un castigo di dio che per un bel po’ non dimenticheremo. Così di anni, per Il latte dei sogni di Cecilia Alemani, abbiamo dovuto aspettarne tre (visto, Ralph?) e il titolo di quella mostra, tratto da una raccolta di racconti per bambini di Leonora Carrington, per noi è suonato come una carezza.
Oggi arriva Adriano Pedrosa e sceglie un titolo intrigante perché, come un gioco di parole, Stranieri ovunque si può leggere dal diritto o dal rovescio: siamo tutti stranieri da qualche parte, siamo tutti stranieri per qualcuno, e di conseguenza ognuno è straniero intorno a noi, come noi lo siamo, in un unico nucleo di “noi” che ha un valore speciale se diventa, appunto, un noi.
Pedrosa – brasiliano, curriculum d’oro e uno sguardo alla Ryan Gosling che gli toglie almeno una decina dei cinquantotto anni che dichiara – fa un bel passo in più nella direzione già aperta dalle colleghe Macel e Alemani verso l’inclusione, e dedica la sua mostra a tutti quelli che sono percepiti come “fuori” da qualcosa. Per farlo, individua il suo titolo dentro una serie di opere di un’artista collettiva – così si definisce – particolarissima: Claire Fontaine.
Ma chi è questa Claire? Già l’idea di “artista collettiva” suona assai strana, in questa fase storica, perché richiama inevitabilmente il termine “collettivo artistico” e dunque vengono in mente esperienze femministe come la Cooperativa Beato Angelico o il Gruppo Donne/Immagine/creatività: realtà potenti, ma estremamente localizzate e oggi percepite come lontanissime nel tempo.
Claire Fontaine, invece, è un mix di contemporaneità e storia, un frullato che mescola insieme le ricerche delle poetesse artiste di Parola/immagine (Ketty La Rocca in testa) e i truismi di Jenny Holzer; le parole gridate da Barbara Kruger e il digitale, l’irriverenza Dada e un neoconcettuale di sapore molto glamour. E l’idea di desoggettivarsi in “collettività”, in un momento in cui l’arte, soprattutto quella che fa mercato, è tutto uno sgomitare di giganteschi Ego che si fanno la guerra, è davvero rivoluzionaria.
Giovanissimo – è nato a Parigi nel 2004 ma vive a Palermo, e già questo è un bel mix – il collettivo è formato da due artisti: Fulvia Carnevale e James Thornhill. E subito parte un sorriso di sollievo, perché è proprio così che deve essere un collettivo artistico: solo lavorando insieme uomini e donne si va dalla parte giusta. Il nome stesso, poi, è un distillato di nonsense e allusioni colte, unendo in sé il côté consumista di una nota marca di cancelleria francese e l’opera con cui Marcel Duchamp ha di fatto ribaltato il senso stesso dell’arte: l’orinatoio ribattezzato Fontana.
L’origine di Stranieri ovunque è interessante: Claire Fontaine ha trovato questa scritta su un volantino anarchico, a Torino. Un invito a rintracciare una strategia di accoglienza alternativa a quella verticale (noi vi diciamo cosa fare se volete restare qui) attraverso l’identificazione con lo straniero. E il fatto di prendere in prestito le parole che sostanziano le loro opere è un ulteriore segnale della tendenza a far scomparire il concetto di autorialità a vantaggio di una creatività diffusa.
Le scritte luminose così come i video, la scultura, la pittura e tutti i media che Claire Fontaine pratica raccontano sempre, invariabilmente, una storia attuale, volta ai temi sociali e politici e con un occhio di riguardo alle donne. E basta aprire il loro profilo Instagram per constatare che la loro arte è inscindibilmente legata alle problematiche dell’oggi. Sempre, però, con la capacità di fare interessanti accostamenti concettuali. Come quando nel dicembre del 2020, invitati a portare una scritta luminosa sulla facciata del Museo del Novecento a Firenze in occasione del Firenze Light Festival, propongono Siamo con voi nella notte, scritta che negli anni Settanta testimoniava la solidarietà con i prigionieri politici, ma che nel 2020, nel mezzo di una devastante pandemia, assumeva significati diversi.
E poi va detto che Claire Fontaine non è affatto snob. Voi lo sapete di chi era la scritta che su per giù un anno fa, sul palco del Teatro Ariston addobbato per il 73° Festival di Sanremo, una raggiante Chiara Ferragni sfoggiava sulla stola firmata Dior? Ebbene sì, quel Pensati libera era opera di Claire Fontaine: una scritta fotografata su un muro di Genova dopo una marcia delle donne; un inno contro il dilagare della violenza di genere che una autentica libertà femminile, forse, potrebbe contribuire a cancellare dalle nostre cronache.