Claire Fontaine è un duo artistico ormai più che adolescente: quest’anno compie ben 20 anni e con le sue opere non smette di instigare in noi quel desiderio di “capire ciò che accade”
Come “Stranieri ovunque”, attualmente esposta all’Arsenale di Venezia e da poco acquisita dal Museo Civico di Castelbuono, o come il più recente dittico del Museo Riso, presentato per le celebrazioni dei 400 anni di Santa Rosalia a Palermo.
Ma chi è realmente Claire Fontaine? L’identità artistica, femminista e concettuale, che ha dato il titolo alla 60° Biennale Internazionale di Arti Visive di Venezia è un’entità autonoma creata da Fulvia Carnevale e James Thornhill, due personalità che hanno scelto di desoggettivarsi – diventandone appunto gli assistenti – per creare una nuova figura da leggere non come la somma delle loro soggettività, ma come uno ‘spazio di lavoro’.
Eccovi un’intervista esclusiva per i lettori di Artuu che cerca di tuffarsi nella “Claire Fontaine” per scandagliarne accuratamente il fondo e conoscerlə più da vicino.
Claire Fontaine è natə a Parigi e quest’anno compie 20 anni. Il suo pseudonimo ci ricorda molte cose: l’orinatoio di Duchamp (Fontaine), una chanson tradizionale francese (À la claire fontaine), una nota marca di cancelleria (Clairefontaine) e persino una mousse modellante per capelli. Com’è iniziato tutto?
Nel 2003, quando ci siamo incontrati a Parigi, abbiamo iniziato a immaginare uno spazio in cui potessero prendere vita delle idee che materializzassero gli affetti, il mondo estetico e l’universo emotivo che stavano scomparendo attorno a noi. Non volevamo che si trattasse di un’operazione nostalgica ma al contrario di un’intensificazione della vita presente e delle possibilità che ci sembravano chiudersi e restringersi a vista d’occhio.
Questo movimento di rimpicciolimento del mondo purtroppo non si è arrestato ma Claire Fontaine è cresciuta nei vent’anni che la separano dal desiderio che l’ha fatta nascere, criticando l’autorità indiscussa dell’autore, l’universo commerciale che avvilisce le nostre emozioni e le nostre relazioni, l’idea del nuovo proponendo invece un nuovo valore d’uso per le immagini esistenti.
“Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere”, l’opera che dà il titolo alla 60° Biennale Internazionale di Arti Visive di Venezia, è recentemente entrata nella collezione permanente del Museo Civico di Castelbuono. Vi siete chiesti come mai quest’opera che risale a circa vent’anni fa si è dimostrata così longeva? Forse perché ha saputo mantenere lo spirito originario?
Molte opere di artisti hanno bisogno di tempo per essere realmente comprese – a volte anche dagli artisti stessi – il caso di Same War Time Zone del 2016 è esemplare.
Alcune opere parlano del presente come futuro, hanno un modo proiettivo di abitare il tempo che, a chi è immerso nella situazione attuale, può sembrare incomprensibile. Stranieri Ovunque, nato come domanda aperta sulla posizione che chiunque di noi occupa quando diventa o incontra uno straniero, è oggi il motto di un modo decoloniale di abitare l’arte grazie a Adriano Pedrosa e alla sua biennale. Siamo stranieri e straniere anche nella cultura del nostro paese di origine che non è un monoblocco ma una superficie frastagliata e venata di complessità, conflitti, disaccordi e rapporti di forza che cambiano continuamente.
Nella logica coloniale/patriarcale, l’appropriazione non solo è giustificata, ma nobilita la cosa di cui ci si è “appropriati”. Che differenza c’è tra questa logica e il vostro lavoro neo-concettuale e anti-autoriale di appropriazione ready-made?
L’autore, l’autorità, l’appartenenza come figura della provenienza ma anche della proprietà, l’improprio e l’appropriazione, ciò che ci è proprio (ci appartiene, ci definisce) e ciò che è appropriato o inappropriato fare in alcune situazioni o in luoghi determinati, definiscono una costellazione essenziale per noi ma anche illuminante per il nostro presente.
L’idea di affermare un valore d’uso e di riuso di una forma o di una referenza, sono strategie per valorizzare una presenza attiva, irriverente, nel mondo dell’arte e della cultura.
Le opere di Claire Fontaine sono “uno spazio di libertà in cui ci si può permettere di giocare”, sono concepite come “regali” alla collettività, una collettività che va dalle signore recluse del carcere della Giudecca al personale d’azienda, ovvero ai funzionari d’apparato, identificando tutti quei ruoli a cui ci inchioda la società. In cosa consistono questi “regali”?
Abbiamo scritto qualche anno fa un testo che si intitola Il lusso della coerenza in cui teorizzavamo che dare un senso alle proprie azioni, comprendere quali sono i nostri margini di libertà personali e collettivi nella società, incontrare gli altri nel contesto di uno spazio comune costruito a partire dai propri bisogni materiali e intellettuali sono il vero lusso oramai.
Il regalo che facciamo è, quando ci riusciamo, trasmettere il desiderio di pensare e comprendere ciò che ci accade, attivare le proprie forze per proteggere dalla distruzione ciò che viene spesso considerato come privo di valore ma è essenziale per la nostra salute.
Nell’attuale sistema tecnocratico ci viene data l’illusione di essere liberi e di poter scegliere, in realtà siamo subdolamente condizionati e spiati e le nostre libertà sono regolate dal nostro potere di acquisto. Che ruolo hanno le opere di Claire Fontaine in questo scenario?
In quanto entità metafisiche e intellettuali che però hanno un piede sulla terra in cui anche noi viviamo, le nostre opere esistono come metafore di un mondo possibile che però spetta a noi rendere reale. L’arte per esempio non ha mai risolto il problema della povertà ma può porlo in modi inaspettati, precisamente laddove si tenderebbe a non parlarne.
La sorveglianza ci fa comprendere come le nostre libertà civili sono regredite fino a infantilizzarci e renderci preda di poteri autoritari. Quando il dissenso è criminalizzato la speranza muore, ma l’arte può ancora provare a raccontare questa storia.
Comunichiamo sempre più spesso con le emoji, pittogrammi digitali che avete riprodotto in diverse opere definendole “metonimie di emozioni readymade pronte all’uso”. Non vi preoccupa il progressivo scivolamento collettivo verso una povertà lessicale?
Non è detto che un uso più limitato delle parole sia in sé una perdita, se osserviamo dall’altro canto la nostra accresciuta competenza nel consumare e produrre immagini. Anche quella visiva è una semiotica come affermiamo nel nostro dittico presentato dal Museo Riso nel contesto delle celebrazioni per i 400 anni della morte di Santa Rosalia.
On fire e A Better Tomorrow incorniciati dalle vetrine che danno su Via Vittorio Emanuele e Piazza Bologni parlano del nostro mondo reale come del mondo digitale e viceversa. Esisteva un culto dei santi ora esiste un culto dello schermo che ci connette sia al materiale che al trascendentale, ma sono sempre bisogni e desideri umani che lo nutrono.
Nel 2020, in occasione di una sfilata Dior, avete presentato una serie di neon sospesi che riportavano frasi come: “Women’s Love is Unpaid Labour”, “Feminine Beauty is a Ready Made”, “Patriarchy = Climate Emergency” e “Consent”. Qual è il legame tra queste parole e in particolare tra patriarcato ed emergenza climatica?
Il patriarcato in quanto forma di dominazione estrattiva, è causa non solo dello sfruttamento di tutto il lavoro che non è riconosciuto come tale perché non è remunerato – spesso svolto da donne e migranti – (lavoro relazionale, di cura, riproduttivo, sociale) ma anche della natura. In questo senso il femminismo costituisce il modello di un’emancipazione politica ed esistenziale che è immediatamente ecologica.
Esiste una gerarchia di valori – esplicita o implicita – alla base di ogni ingiustizia, ciò che non è tutelato, o viene sfruttato fino alla distruzione, è considerato come privo di valore o semplicemente funzionale a produrre una valorizzazione di cose e persone viste come più importanti (il potere, la ricchezza, lo sviluppo tecnologico). Il patriarcato è questo: l’uso e l’abuso di chi non può difendersi dalla sua oppressione, dal fiume inquinato alla donna maltrattata, con la speranza che nessuno si accorga di queste azioni o che siano percepite come inevitabili perché esistono da sempre.
La collaborazione tra Claire Fontaine e Maria Grazia Chiuri di Dior è proseguita con la scritta “Pensati libera” sulla “stola-manifesto” di Chiara Ferragni e con l’installazione del gesto femminista anni ’70 della vagina. In che modo temi scottanti come la globalizzazione, il cambiamento climatico e l’emancipazione femminile possono essere affrontati attraverso il connubio tra arte, moda e spettacolo?
Il mondo della moda e il festival di Sanremo toccano masse immense di persone che non si avvicinerebbero mai a una nostra mostra o a questo giornale. Di fatto il bisogno umano di leggerezza e di distrazione è meglio soddisfatto dall’abbigliamento o dalla musica leggera che dall’arte o dalla critica, almeno in questa società.
Ricordare, in questi contesti normalmente percepiti come non politici, che anche delle abitudini innocenti come oggettificare le donne lodandole solo per la loro bellezza, hanno radici terribili e velenose è molto importante. Trovare il modo di raggiungere le persone che sono meno consapevoli di partecipare a un sistema distruttivo è fondamentale. Anche i nostri pregiudizi sui contesti adatti o inadatti a porre i problemi più urgenti fanno parte di questi stessi problemi.
Avete “vandalizzato” riproduzioni di opere d’arte iconiche come L’Origine du monde di Courbet. Il tema della vandalizzazione delle opere d’arte come forma di protesta è molto attuale, come lo avete affrontato?
Lavoriamo da tempo sull’idea di vandalismo di conseguenza, sostanzialmente l’abbiamo affrontata fuori contesto per capire meglio come un’azione, che danneggia e rovina qualcosa di prezioso, vorrebbe evocare il danno e la rovina di qualcos’altro che viene passato sotto silenzio e il cui valore è negato dalle circostanze politiche. Abbiamo cercato di considerare l’oggetto danneggiato come qualcosa di più significativo dell’oggetto nel suo normale stato di integrità. Il vandalismo è stato da noi affrontato come un’aggiunta di potere piuttosto che come la distruzione di uno stato ideale di un oggetto.
Quindi, tenendo conto del fatto che imbrattare una riproduzione (ad esempio nel caso di L.H.O.O.Q. di Marcel Duchamp) o un quadro tradizionale senza valore (come nel caso della pratica di Asger Jorn) non è visto come un gesto criminale o come un incitamento alla distruzione delle opere d’arte nei musei, abbiamo “vandalizzato” le riproduzioni – realizzate da pittori cinesi specializzati in questo tipo di opere – di tre dipinti iconici: Le déjeuner sur l’herbe, La grande odalisque e Olympia. Erano questi i tre dipinti che avevamo già utilizzato nella riproduzione fotografica su cartoline accompagnate dal tag #metoo perché nei tre dipinti le donne immortalate, nonostante siano nude, guardano enigmaticamente gli spettatori.
Siamo poi passati al L’origine du monde che ci è sembrato la necessaria continuazione di questo percorso. La questione del vandalismo per noi richiamava più che il problema del valore, quello della cura, anche se i due sono ovviamente profondamente legati.
Il tentativo degli eco-vandali è dunque quello di traslare il valore della cura dall’opera d’arte al Pianeta?
L’opera d’arte che riceve una cura e un’attenzione che ad altri manca, appare sorda nel suo privilegio e in quello dei suoi fruitori, alle sofferenze che la circondano. La sua stessa esistenza protetta diventa un insulto per chi non riceve una protezione necessaria e urgente. Umberto Eco scrive ne L’opera aperta
“Se in una casa in fiamme vi sono nostra madre e un quadro di Cézanne, salviamo prima nostra madre, senza per questo affermare che il quadro di Cézanne non sia un’opera d’arte”. La situazione contingente non diventa parametro di giudizio, diventa discriminante di una scelta. È la situazione che denuncia appassionatamente Brecht quando afferma: “ Quali tempi sono questi, quando un dialogo sugli alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio!” Brecht non dice che parlare degli alberi sia male. Vibra anzi nei suoi versi una sorta di insopprimibile nostalgia per quella dimensione lirica da cui è attratto e che deve rifiutare.”
Lo scorso 23 maggio a conclusione della conferenza tenutasi a Palermo, vista la coincidenza con la giornata della legalità, avete lasciato il pubblico con una riflessione sul “fondamento culturale della mafia” affermando che tale fondamento è “la famiglia” . Probabilmente sottintendendo “patriarcale”, non di certo “queer”. Vi siete mai ispirati a questa nuova forma di famiglia dove non si ha un legame di sangue ma di spirito?
Siamo cresciuti noi stessi – come chiunque si sia allontanato presto dalla propria famiglia di origine – all’interno di collettività che non sono fondate sul legame di sangue. Definirle famiglie ci sembra problematico, abbiamo letto Michela Murgia e siamo consapevoli che per riprodurre la specie umana la cura va distribuita in modi definiti e responsabilizzanti, quindi all’interno di meccanismi familiari, anche omosessuali o adottivi, fatto sta che finita l’età della dipendenza infantile la famiglia si rivela sempre per ciò che è: un dispositivo economico che tende a prolungare l’ interdipendenza reciproca in nome della cure parentali ricevute ed erogate – che sono in realtà semplice dovere dell’adulto che consapevolmente ha generato una vita, non un debito che i figli contraggono per essere venuti al mondo.
Tutti nasciamo poveri e bisognosi, ricevere l’amore e il denaro necessari a diventare adulti dovrebbe essere un diritto, non un privilegio o una prigione. Abbiamo collettivi e diaspore di amici e compagni con cui abbiamo affinità elettive ma per quanto intimi siano i nostri rapporti preferiamo davvero non chiamarli famiglie. La famiglia è – per chi voglia dei figli e resti affezionato ai genitori – inevitabile, ma non cambierà radicalmente in meglio finché non aboliremo il capitalismo e il patriarcato (con chiunque la formiamo).
Dal 2017 vi siete trasferiti a Palermo, che a detta vostra è una “città anarchica, caotica ma piena di libertà e di stimoli visivi e sensoriali che non esistono nelle città gentrificate” (…) “un posto per artisti e persone che fanno ricerca in modo non affiliato” (…) ”un luogo accogliente che ama gli stranieri”. Palermo è una città terapeutica?
Assolutamente sì, sentiamo di doverle la vita, anche per questo siamo onoratissimi di aver potuto dedicare l’installazione al museo Riso a Santa Rosalia, figura taumaturgica della guarigione.