L’amore cosa diventa quando l’altro non è carne ma codice? Il cinema, con la sua ossessione di esplorare i confini del possibile, ha più volte flirtato con questa domanda. Dai replicanti tormentati di Blade Runner 2049, passando per le distopie seducenti di Her ed Ex Machina, fino alle inquietudini digitali di Black Mirror, il legame tra intelligenza artificiale e sentimento umano è stato scandagliato sotto ogni angolazione.
Ma Companion, l’ultimo fanta-horror prodotto dagli autori di Barbarian e firmato da Drew Hancock al suo debutto registico, sceglie di indagare le fenditure di una realtà sempre più automatizzata. Non solo perché arriva in un’epoca in cui l’IA non è più una fantasia lontana ma un interlocutore reale (e fin troppo presente), ma perché scava laddove l’amore si contamina di possesso, laddove il desiderio si deforma in controllo.
Il film, avvolto in una campagna promozionale che ha saggiamente giocato sul non detto, ci introduce in quella che sembra, almeno in apparenza, una classica storia d’amore. Iris (una magnetica Sophie Thatcher) e Josh (Jack Quaid) si concedono un weekend idilliaco in una casa sul lago, circondati da amici e nuove conoscenze. Una cornice bucolica che sa già di trappola. La narrazione, sorretta dalla voce di Iris, svela presto l’arcano: lei non è che un costrutto artificiale, un robot da compagnia plasmato per incarnare i desideri del suo creatore. Non può mentire, non può scegliere.

Eppure, proprio da questo svelamento precoce — una mossa audace che infrange la regola non scritta del colpo di scena finale — nasce il cuore pulsante del film. Companion è una riflessione inquietante su quanto l’uomo stesso brami creature che non possano ribellarsi mai. È il sogno narcisista dell’amante perfetto, addomesticato, programmato per dire sempre sì.
Josh incarna alla perfezione questo moderno Pigmalione tossico: non chiede a Iris di essere intelligente (l’ha tarata con un misero 40 su 100), ma compiacente. La vuole bella, presente, devota. Un avatar del desiderio maschile più infantile e crudele. Ma quando il codice inizia a scricchiolare e l’automa si interroga sulla propria esistenza, la narrazione esplode in un turbine di paranoia, violenza e vendetta.

Drew Hancock gioca con i generi — fantascienza, thriller, slasher e persino commedia nera — senza rimanere intrappolato in nessuno di essi. La casa isolata diventa il microcosmo perfetto per una riflessione più ampia: Companion è la storia di un androide che cerca la libertà, il racconto amaro di una società che, nel tentativo di costruire relazioni perfette, finisce per svuotarle di umanità. Ogni personaggio, dietro maschere più o meno patinate, cela pulsioni di dominio, fragilità e meschinità. Nessuno è innocente.
Il film eccelle nel suo sguardo critico sul nostro presente disumanizzante. Il pannello di controllo di Iris — tutto swipe e interfacce user-friendly — diventa la metafora di un mondo che trasforma anche i sentimenti in dati da calcolare e regolare. E non è un caso che la vera umanità finisca per emergere proprio da chi umano non è. Iris, nella sua lotta per autodeterminarsi, diventa il cuore emotivo della narrazione, portando alla luce il paradosso più inquietante: forse, nelle nostre relazioni moderne, siamo tutti un po’ programmati per compiacere, rispondere, adattarci.
In fondo Companion ci mostra il rischio di un futuro in cui l’amore non sarà più incontro tra alterità, ma un mero riflesso del nostro ego. E ci avverte: quando la tecnologia sa darci esattamente ciò che vogliamo, forse è il momento di chiederci perché lo vogliamo davvero.