La fotografia è essenzialmente una questione personale, confessa Inge Morath; talmente importante che raramente si sente il bisogno di spiegarla, soggiungo. Dà quanto basta e non necessariamente quanto le si chiede. È l’essenziale, infatti, ciò che si raccoglie degli scatti della fotografa austriaca in mostra a Cagliari e che forse, generalmente, anelo di una foto, mie comprese, ma che stavolta non mi sono dovuto sforzare di trovare; come spesso mi accade perché di certo sbaglio, visto che la prima donna della Magnum (dal 1953) ha dimostrato altro. Inge Morath, nata a Graz nel 1923 e morta a New York nel 2002, è dai suoi scatti testimoniata, fino al 1° ottobre 2023, al Palazzo di Città, nella nobile cornice di Castello, avamposto di soggetti e oggetti fotografici per gli sguardi più spigliati.
Ernst Haas, Robert Capa e Henri Cartier-Bresson sono solo alcuni degli illustri modelli che, conosciuti personalmente, riuscirà a tradurre, anche tecnicamente, nelle sinfonie compositive dei suoi scatti votati al giusto: Inge Morath vede ciò che serve, la misura delle cose, dove forse si situa la genialità. Nel basico spazio della mostra, intelligentemente curata da Brigitte Blüml-Kaindl e Kurt Kaindl, è accolta una collezione che, partendo dal reportage di Venezia (1955), di una defilata Venezia, che inaugura la sua carriera, trapassa il mondo per approdare a casa propria, ai confini fra Stiria e Slovenia, dove concentra le sue ultime energie fotografiche. Il cerchio si chiude.
La retrospettiva si orienta fra Italia, Spagna, Iran, Russia e Cina, nei luoghi di una vita alla quale Inge Morath strappa la conoscenza di inglese, tedesco, francese, spagnolo, rumeno, russo e mandarino, dimostrando una formidabile attenzione al dato culturale, che rende arte e informazione con delicatezza. Alle scene di vita incontrate dal suo obiettivo, urbane e rurali, ponti in un secolo andato, l’autrice restituisce una grazia perduta nel senso comune, illuminandone i significati di reciprocità e quotidianità che, silenti nel nostro balbettìo occidentale, incline a negare, lo sguardo moderno trasfigura, deforma e rende vacui.
Agli occhi che fissano i suoi, Inge Morath chiede scusa. Occhi e istanti, da lei fissati, di cui non parliamo a sufficienza, celati come sono da un mare di asfissiante vanità, di smodata estetica. Donne e uomini, bambini e adulti, prossimità e distanza, spirito e materia.
Se il racconto fotografico della sua intimità è accorto e discreto, quasi timido, come da mera esecutrice, i suoi protagonisti casuali e meno, non raramente intenti nel fare, completano una narrazione dal taglio etnografico; traspare, con chiarezza, la coscienza di una missione che può quasi dirsi antropologica, ma essenzialmente rivolta al suo personale e inconscio bisogno di conoscere e trasmettere.
Gli anni Sessanta sono uno spartiacque professionale importante: sul set de “Gli spostati” incontra Arthur Miller, che diverrà suo marito nel 1962 e che la proietterà negli USA, dove morirà nel 2002.
Nella fertile America incontra Saul Steinberg, artista, che sarà fondamentale per il suo perfezionarsi sul tema del ritratto, filone cardinale della mostra cagliaritana e che funge da cesura fra quelle che mi paiono le dimensioni essenziali dello sforzo di Morath: ironia e gravità, serietà e leggerezza. Tutte al cospetto della conoscenza.
Inge Morath, amata da tanti uomini, ha danzato con le sue fotografie e quindi con i suoi personaggi, tradendo ritrosia e sorridendo alla caducità, che nelle stesse pare divertirsi e, a tratti, ridere di noi. Sopraffatti da informazioni e immagini che si auto-riproducono fissando istanti che siamo costretti a rivivere identici l’uno all’altro, procediamo storditi e apatici, smartphone in mano, sbiaditi anche se avvolti da colori plastici e cangianti, con l’ingrato compito di edulcorare narrazioni ora millenaristiche ed ora idilliache.
Si dice e si sente dire, più facilmente negli ambienti critici ed eruditi, che chi osserva uno scatto guarda e vede con gli occhi del fotografo. Non credo di essere d’accordo: chi osserva lo fa con i propri occhi e strumenti; grazie, semmai, a prerogative concettuali e dunque culturali già possedute e rispetto alle quali la fotografia non funge che da interruttore. L’abnegazione, che quasi sottomette la volontà di documentazione, ottiene di democratizzare il suo lascito così come Inge Morath ha concepito la fotografia, quella vera. Fu così che conoscemmo il mondo.
“Ho amato la gente. Molti mi hanno permesso di fotografarli, ma anche loro volevano che li ascoltassi, per dirmi quello che sapevano. Così abbiamo raccontato la loro storia insieme_”_ (Inge Morath)