Mai come in questa epoca di post globalizzazione la rievocazione del grand tour di goethiana memoria sembra così attuale: c’entra il territorio, c’entra la cultura locale, c’entra forse soprattutto la salvazione di una memoria visiva che rischia di affievolirsi sempre più. Milano è la metropoli chic dove la design week, il Miart, la fashion week e il resto delle trovate da cazzari nascondono sotto il tappeto urbano la polvere dei cittadini in coda davanti a Pane Quotidiano, mentre la memoria del territorio e della cultura soffoca sotto il peso degli orrori verticali in vetro e acciaio che piacciono alla gente che piace. Ma, per eterogenesi dei fini, questa de-territorializzazione porta, proprio grazie all’estro creativo di artisti e visionari, a un recupero del territorio, sia pure attraverso la suddetta memoria visiva.
È la sensazione che proviamo ammirando le fotografie di Cosmo Laera nella sua personale nella Galleria Eroici Furori di Milano: una mostra a cura di Jacqueline Ceresoli, intitolata non per niente Molto umano, dove il fotografo nato in Puglia ad Alberobello, docente di Fotografia dell’Accademia di Brera ma anche curatore di mostre, ha realizzato una serie di scatti mediati dalla luce in dialogo con il territorio, la natura, le piazze, le strade e i monumenti di quello che non è solo un territorio geografico: il Mediterraneo, soprattutto la sua amata Puglia, ma estendendo lo sguardo alla culla dove è nata la nostra civiltà, la Grecia con i suoi filosofi e il suo Partenone.
Si tratta di “luoghi della grande meraviglia del bianco”, come scrive Jacqueline Ceresoli nel testo che accompagna la mostra, stampate in diversi formati fino a un grande esemplare su tessuto di 4 metri per 4, dove il Mediterraneo non c’è ma è come se ci fosse, sorta di proprietario assente di un orizzonte “incorniciato intorno al desiderio del paesaggio”, dice sempre Ceresoli.
Perché la meraviglia è qui e oltre: le “moltitudini” du cui ci parlava Toni Negri a inizio millennio nel pieno della globalizzazione incipiente sono diventate, come nota giustamente Ceresoli nel testo, “moltitudini di solitudini”, le stesse che vivificano gli scatti di Laera come dei tableaux vivant fissati ab aeterno: presenze su set cinematografici che sono di volta in volta la piazza con la sua processione religiosa, la spiaggia affollata di bagnanti, il colonnato con il suo struscio di turisti, tutti vibrati da una luminosità abbacinante, come camminassero in un lago di luce, dove l’architettura e il paesaggio emergono nella loro assoluta familiarità archetipica. Tu non puoi non riconoscerli. Anche se non ci sei mai stato. E guardandoli ti vien voglia di andarci. Per scoprirli, o ri-scoprirli, questi territori della nostra cultura, che è in larga parte, giova ripeterlo, cultura del Maediterraneo (dice: e il Nord Italia? Sì, ma i Normanni invasero la Sicilia, ecco perché lì non tutte sono come la Cucinotta).
Le visioni di Cosmo Laera sono surdeterminate, nel senso che oltre l’orizzonte c’è di più. Sono visioni aeree, prese dall’alto e assommate l’una all’altra per ottenere la visione panottica di uno stesso territorio, sia esso piazza o monumento, visto dal punto di vista della verticalità: si tratta di quella che Ceresoli definisce “la visione non della comprensione delle trasformazioni paesaggistiche in atto anche nella sua amata Puglia, ma la sur-visione per suggerire la presenza di uno spazio oltre lo scenario prevedibile”.
Il risultato è un salto spaziotemporale: la tradizione, la cultura, il territorio, le vestigia della civiltà ma anche il “logorio della vita moderna”, per dirla con l’indimenticato Ernesto Calindri di quel famoso spot tv di quarant’anni fa, sono ancora qui davanti a noi ma colte in un fermo immagine super-contemporaneo, rilucente, ammaliante, stupefacente, contrassegnato da quel felice dissidio visivo tra luce extrafenomenica e assoluta terrestrità, con persone in shorts e felpa e maglietta.
Non è fotografia pittorica ma c’è molta pittoricità, in questa serie di scatti di Cosmo Laera. E cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia: a emergere è “la cultura dell’immagine”, che è lo stile di questa nostra contemporaneità, così amata e così detestata, così ammirevole e così problematica. Ecco perché l’arte è per definizione contemporanea, come dice il nostro Sgarbi nazionale.