Dalla dispersione alla comunità: l’esperienza artistica come narrazione condivisa

Nel mondo contemporaneo, il nostro modo di “esperire” quotidiano si presenta spesso come un susseguirsi di frammenti: brevi messaggi sui social media, notifiche di chat, e-mail e feed di notizie che si rincorrono in un flusso incessante. Questa frammentazione influenza non solo il nostro modo di comunicare, ma anche il modo in cui costruiamo il racconto di noi stessi e della realtà in cui viviamo. Le nostre giornate sembrano comporsi di “pezzi” di narrazione disconnessi, dove ogni elemento deve competere con un’infinità di altri stimoli per catturare la nostra attenzione, causando una stanchezza fisica e mentale cronica. L’immediata conseguenza è la perdita della capacità di cogliere la complessità delle situazioni in un tutt’uno coerente, causando incapacità comunicativa, ansia e, infine, un’isolamento che diventa quasi una prigione mentale.

Sorge quindi l’esigenza di ritrovare un filo narrativo capace di ricomporre questi pezzi e di raccontare l’esperienza umana nella sua interezza, creando una prospettiva unitaria che tenga insieme mente, corpo, società e cultura, pur consapevoli di vivere in un’epoca dominata dall’iperconnessione. In questo senso, due pensatori apparentemente lontanissimi nello spazio e nel tempo – il filosofo contemporaneo sudcoreano (ma attivo in Germania) Byung-Chul Han e il pragmatista americano John Dewey – si rivelano sorprendentemente concordi nel diagnosticare il problema e nell’indicare una via d’uscita, ognuno a modo suo.

Byung-Chul Han denuncia la frammentazione e l’iperesposizione dell’individuo contemporaneo, mentre John Dewey già nella prima metà del Novecento invitava a valorizzare l’esperienza condivisa e l’atto creativo collettivo come antidoto all’isolamento e all’alienazione. Sebbene provengano da contesti diversi, entrambi sottolineano l’importanza di un “tessuto narrativo” capace di includere e unificare tutte le parti dell’esperienza.

Byung-Chul Han: iperconnessione e isolamento

Byung-Chul Han, nei suoi saggi come La società della stanchezza, Psicopolitica e Le non-cose, descrive l’era digitale come un sistema in cui l’individuo è incessantemente spinto a produrre e a mostrarsi. L’imperativo della trasparenza e dell’“essere performanti” crea un contesto dove non esiste più una vera distinzione tra sfera privata e pubblica: tutto diventa potenzialmente un contenuto da esporre, condividere, diffondere. In tal senso, la tecnologia agisce come un grande “panottico digitale”, perché ci sentiamo sempre osservati, giudicati e valutati in base ai nostri contributi e alle nostre performance sociali.

Questo fenomeno produce un senso di solitudine paradossale dovei la velocità e la quantità delle interazioni online si traducono in una continua frammentazione del nostro racconto personale, il quale avviene attraverso brevi post e “storie” di pochi secondi, dove l’effetto visivo o emotivo immediato prevale sulla profondità.

Per Han, questa costante tensione a mostrarsi e a compararsi con gli altri ci conduce in un circolo vizioso di insoddisfazione e inadeguatezza, che accentua la sensazione di solitudine. Il recupero di spazi di silenzio, di momenti di riflessione e di relazioni reali diventa quindi la sola via di fuga dalla “società della trasparenza” e dalla frammentazione imperante.

New Orleans Candy Chang Before I die Wall (candychang.com)

John Dewey: l’esperienza come narrazione unitaria

All’inizio del secolo scorso, l’americano John Dewey (1859-1952) aveva già individuato, seppur in un contesto diverso, la necessità di un racconto unitario dell’esperienza. Nella sua opera Arte come esperienza (1934), Dewey sostiene che l’esperienza estetica nasce dall’interazione dinamica e unitaria tra individuo e ambiente, in cui il materiale interno (emozioni, pensieri) si fonde con il materiale esterno (forme, suoni, colori) in un continuum unitario. Senza materiale interno, l’opera è meccanica; senza materiale esterno, resta vaga; la mancanza o la preponderanza di uno di questi due elementi inoltre, provoca solitudine e incomunicabilità. L’artista trasforma il materiale grezzo in espressione significativa, creando un’esperienza estetica coinvolgente in un tutto-organico dotato di senso

Secondo Dewey inoltre, la società democratica si regge sulla capacità delle persone di condividere esperienze e di trasformarle in narrazione comuni. L’educazione, la cultura e l’arte sono quindi gli strumenti fondamentali per sviluppare un senso di appartenenza e di cooperazione, coinvolgendo attivamente i cittadini nella produzione di significati e valori condivisi. 

Ritornando al problema della frammentazione moderna, l’approccio deweyano ci invita a cercare soluzioni concrete nella partecipazione creativa. Se la tecnologia e il mercato tendono a spingerci verso il consumo individuale e l’autopromozione, l’arte – intesa come atto collettivo – può riconnetterci a un senso di comunità, di racconto condiviso

Inside Out Project di JR

Arte collettiva come strumento di unità

L’arte collettiva rappresenta un processo in cui la creazione non è espressione di un singolo “genio”, ma il risultato di un lavoro condiviso tra più persone. I partecipanti diventano co-autori di un’unica storia, che si arricchisce delle differenti prospettive e competenze di ognuno. È un’opera che, anziché frammentare oppure esasperare l’individualità dell’artista, unisce e genera comunità, poiché invita al dialogo e allo scambio.

In tal senso, l’arte collettiva funge da antidoto alla solitudine digitale, permettendo alle persone di ritrovarsi in spazi fisici o in progetti virtuali di collaborazione effettiva, in cui la frammentazione lascia il posto a un disegno più ampio.

Tra i progetti che hanno saputo trasformare l’arte in un’esperienza condivisa e partecipativa, spiccano diverse iniziative dal respiro internazionale e locale. Inside Out Project di JR, ad esempio, invita persone di ogni parte del mondo a inviare un proprio ritratto fotografico in bianco e nero, poi stampato in grande formato ed esposto negli spazi urbani: il risultato è un mosaico corale di volti e storie, che restituisce l’identità profonda delle comunità. Un’ispirazione analoga si ritrova in “Before I Die” di Candy Chang, dove pareti abbandonate diventano lavagne pubbliche su cui i passanti scrivono i propri desideri più intimi, creando luoghi di scambio emotivo.

Allo stesso modo, i Musei diffusi e le residenze d’artista espandono il concetto di museo e di fruizione culturale: gli artisti lavorano fianco a fianco con gli abitanti, trasformando strade, piazze e paesaggi in luoghi di ricerca e condivisione.

Tutti questi progetti però, pur avendo un loro valore precipuo, hanno il difetto di non condurre una vera e propria narrazione individuale, creando semplicemente una sorta di “racconto per addizioni” dove il processo unitario si perde.

Lifeshot il progetto di Mr Savethewall per UpTown

Diverso è invece il caso del progetto Lifeshot di Mr. Savethewall per UpTown Milano: qui infatti l’artista ha creato dialogando direttamente con i residenti e raccogliendo frammenti delle loro storie di vita. Da queste conversazioni sono nate opere che raccontano l’anima di un quartiere in crescita, facendo emergere un senso di comunità consapevole e partecipe. L’artista, grazie alla sua senibilità deweiana, diventa una sorta di direttore che guida l’espressione individuale e tiene le redini della narrazione collettiva senza forzarla, un mediatore gentile. In questo modo dall’atto creativo nasce davvero un racconto collettivo, capace di rispecchiare e al tempo stesso rafforzare il tessuto sociale in cui prende forma. L’output fisico sono dei video, ritratti stampati che fungono da simbolo per l’identità collettiva.

La frammentazione della narrativa contemporanea ci priva di quella sensazione di continuità e di integrazione che rendono la vita ricca di significato. Byung-Chul Han e John Dewey, ciascuno con la propria lente teorica, sottolineano l’importanza di ricostruire un tessuto di relazioni e di esperienze condivise come sola via per contrastare l’isolamento e l’iperindividualismo.

Alla fine, il messaggio chiave è che non basta condannare la realtà digitale come fonte di alienazione: è necessario offrire alternative in cui la condivisione non sia solo virtuale, e in cui ogni frammento di esperienza possa trovare il suo posto in un racconto più vasto e integrato. Solo così potremo dare risposta al bisogno profondo di sentirci parte di qualcosa che ci trascende e ci arricchisce, riconoscendo che la vera connessione risiede nella partecipazione a un’umanità creativa e solidale.

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