David McFarland, “la fotografia cinematografica potenzia in modo sottile l’esperienza dello spettatore”

La fotografia, per sua natura intrinseca, e’ un’arte che documenta l’accadere, lo scorrere degli eventi e della vita. 

La fotografia declinata nell’ambito cinematografico è invece lente, sfondo, cornice poetica e grammatica del visivo, e la responsabilità d’interpretare la sceneggiatura seguendo allo stesso tempo la vision registica implica, oltre al sapere tecnico, una sensibilità anzitutto umana, profonda.

Nel caso di David McFarland, DOP nato e cresciuto in Texas, e acceso dalla passione per la fotografia sin da piccolo, il lavoro del fotografo per il cinema ha intrapreso, nel corso della sua carriera, un percorso ben preciso. Dopo aver studiato cinematografia e antropologia alla Boston University, ha cominciato a lavorare a progetti in tutto il mondo, da luoghi estremi come l’Himalaya a zone di conflitto come Afghanistan, Cisgiordania e Palestina. David McFarland ha scelto infatti di dedicare il suo sapere e il suo talento a progetti narrativi che affrontano temi sociali e politici, con l’obiettivo di creare immagini in grado di influenzare lo spettatore a un livello subliminale, dimostrandosi interprete e collaboratore. Lo abbiamo intervistato per capire meglio cosa significa lavorare come DOP in progetti spesso dal valore culturale e politico profondo, di cui spesso ne ritroviamo solo una narrativa mainstream.

Dave, come catturi l’essenza della condizione umana e quali tecniche visive aiutano a trasmettere emozioni profonde?

Mi sento attratto da progetti incentrati sulla condizione umana. Questi film spesso raccontano la storia di un personaggio o di un gruppo di personaggi che affrontano difficoltà significative, come la guerra, problemi socioeconomici, persecuzioni religiose, politiche ed etniche. Per rendere autentica la loro esperienza, studio il contesto storico e, se possibile, mi immergo nella realtà che rappresento.

Quando il regista Bassam Jarbawi e io abbiamo iniziato a discutere su come rappresentare i temi della claustrofobia e della perdita d’identità nel film palestinese MAFAK, abbiamo avuto l’opportunità di andare direttamente alla fonte. Il film segue Ziad, che torna a casa nel campo profughi di Al Amari a Ramallah (Cisgiordania) dopo una lunga detenzione in una prigione israeliana. Sebbene il personaggio sia fittizio, Bassam (originario di Ramallah) ha passato anni a costruire rapporti con prigionieri politici con storie simili a quelle di Ziad. La mia prospettiva sull’argomento si è ampliata enormemente grazie alla possibilità di vedere da vicino il mondo reale in cui il film è ambientato.

Come si è evoluto il tuo stile visivo nel tempo e quando scegli di sperimentare rispetto a mantenere un approccio più sobrio?

Nel tempo, il mio stile visivo si è evoluto, ma il mio approccio rimane sempre flessibile per adattarsi alle esigenze di ogni progetto. Alcuni registi con cui lavoro hanno un’idea precisa dell’estetica del loro film, mentre altri cercano una collaborazione più aperta. In entrambi i casi, mi considero un collaboratore e un interprete. Credo di essere scelto non solo per la mia sensibilità fotografica ed esperienza, ma anche per la mia prospettiva.

Naturalmente, avendo girato molti film (in oltre 20 paesi), i miei gusti si sono evoluti e la mia visione si è ampliata. Tuttavia, qualunque sia il progetto, cerco sempre di creare un linguaggio visivo guidato dalla storia. Il mio obiettivo è far sì che questo linguaggio cinematografico operi a livello subliminale, senza mai mettere lo stile fotografico davanti alla narrazione o alle performance degli attori.

Come bilanci la narrazione e la sensibilità politica quando filmi in Medio Oriente? Quanto influisce l’immersione culturale sul tuo approccio?

Quando possibile, non c’è nulla che possa sostituire l’immersione culturale. Anche se non sempre è fattibile, vedere le cose di persona e trascorrere del tempo con chi ha vissuto in prima persona le difficoltà rappresentate nel film può essere estremamente illuminante. Come occidentale che lavora in Medio Oriente, Nord Africa e Asia centrale, è fondamentale avere una comprensione delle pratiche religiose e delle tradizioni locali. Naturalmente, non sempre sono intuitive e ho commesso errori, ma cerco sempre di mostrare il massimo rispetto.

Mi sono spesso trovato a raccontare storie progressiste in luoghi governati da regimi autoritari, il che può essere molto pericoloso. Ritengo importante non sentirmi mai troppo a mio agio.

Nell’autunno del 2009 sono stato ingaggiato all’ultimo momento per girare THE BLACK TULIP in Afghanistan. Questo film anti-talebano, diretto dalla regista afghana Sonia Nassery Cole, è stato girato a Kabul in un periodo particolarmente instabile della guerra. Nei primi giorni della preparazione, un’autobomba destinata all’Ambasciata Indiana a Kabul ha fatto esplodere i vetri dell’hotel in cui alloggiava la troupe. Anche se nessuno della produzione è rimasto ferito, alcuni membri chiave del team, incluso il direttore della fotografia, hanno deciso di abbandonare il progetto. Sono arrivato sul set senza tempo per un’adeguata preparazione culturale, ma la troupe locale mi ha aiutato a cogliere le sfide della vita in una zona di guerra.

THE SWEET REQUIEM courtesy of producers

La fotografia deve guidare le emozioni del pubblico o lasciare spazio all’interpretazione? Come trovi il giusto equilibrio?

Credo che la migliore fotografia cinematografica sia quella che potenzia in modo sottile e subliminale l’esperienza dello spettatore. Ogni decisione visiva che prendiamo influisce sulla relazione del pubblico con la storia. Mi piace operare appena sotto la superficie, lasciando ampio margine all’interpretazione.  Amo operare la camera, ma ancor di più discutere come costruire l’esperienza visiva: quali temi esprimere? Quale ruolo ha la fotografia? Queste domande definiscono il linguaggio cinematografico.

Nei film a basso budget, come stabilisci le priorità visive? Qual è la soluzione più creativa che hai adottato?

Nei film a basso budget, la sfida principale è trovare un approccio cinematografico che sia non solo adatto alla sceneggiatura, ma anche realistico in base alle risorse disponibili. Questo è stato il caso quando ho girato THE SWEET REQUIEM, un film tibetano a budget ridotto girato in India.

I registi, Ritu Sarin e Tenzing Sonam, avevano molta esperienza nei documentari, ma meno nei film narrativi, il che per me era molto stimolante. Pur avendo pianificato le inquadrature per tutto il film, volevamo comunque lasciare spazio all’improvvisazione. Per questo motivo, ho ridotto al minimo l’illuminazione e adottato un approccio con camera a mano per gran parte delle riprese. Questo ci ha permesso di muoverci rapidamente sia nelle scene girate sulla neve ad alta quota nell’Himalaya, sia nei lunghi piani sequenza attraverso i vicoli soffocanti della colonia tibetana di Majnu Ka Tilla, a Nuova Delhi.

THE SWEET REQUIEM Delhi India ph Tenzin Dolker

Hai mai avuto un’interpretazione diversa di una sceneggiatura rispetto al regista? Come hai risolto la situazione?

Ci sono state occasioni in cui il regista ed io abbiamo avuto interpretazioni differenti su come rappresentare visivamente una scena o una sequenza, ma considero questo un aspetto positivo. In definitiva, mi spinge a riflettere più a fondo sulle mie motivazioni e sulla mia comprensione generale del lavoro, il che non è mai un male! Amo collaborare e accolgo sempre con piacere discussioni approfondite per assicurarmi che la mia interpretazione del materiale sia radicata nella maniera più autentica e onesta possibile. Credo che il regista abbia la visione più approfondita dell’opera e il mio compito è creare lo spazio per permettergli di esplorare e dar vita alla sua idea. Questo vale anche per gli attori.

MAFAK Ramallah West Bank ph Yousef Hammad

Come collabori con gli attori per valorizzare le loro performance visivamente senza interferire?

Ho il massimo rispetto per gli attori. Ho lavorato sia con interpreti affermati e altamente formati che con attori meno esperti. Ritengo che il mio compito sia creare un ambiente in cui le loro performance possano emergere in modo naturale. Ogni progetto ha la propria estetica e il proprio stile (che influenzano le scelte di illuminazione e ripresa), ma indipendentemente dall’approccio visivo, cerco sempre di illuminare prima lo spazio e poi i volti. Spesso traggo ispirazione dalle fonti di luce naturali, come le finestre, o integro la luce nell’architettura del set. Questo metodo aiuta a tenere la maggior parte dell’attrezzatura lontana dagli attori, lasciando loro la libertà di muoversi senza vincoli e senza doversi preoccupare troppo di segnali o ingombri tecnici. Per me, la visione finale di un film non ha valore se va a scapito della naturalezza della recitazione.

TESTAMENT ph unkown

Come hai sviluppato lo stile visivo di Testament affinché risultasse sia storico che innovativo?

Il regista Benjamin Ross aveva un’idea ben precisa dell’estetica di Testament. Questa reinterpretazione della storia di Mosè era di proporzioni epiche. 

Fin dall’inizio, Ben aveva un’idea chiara di come voleva che la macchina da presa si muovesse. Poiché Mosè è spesso in bilico tra realtà e visioni divine, Ben voleva che i movimenti della camera risultassero fluidi e onirici. Abbiamo quindi deciso di montare la macchina da presa principale (che operavo da remoto) su una gru, utilizzando uno stabilizzatore leggero per ottenere movimenti morbidi e naturali. Questo metodo ci ha permesso di apportare modifiche in tempo reale. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare con un incredibile operatore di gru, Erkan Bül Bül di Istanbul, che si è adattato perfettamente a questa tecnica. 

L’illuminazione è stata invece studiata per rimanere fedele al periodo storico: le nostre fonti principali erano il sole, la luna e il fuoco. Abbiamo dovuto illuminare set di grandi dimensioni, il che ha richiesto una squadra altamente qualificata, capace di lavorare in condizioni estreme: vento, pioggia, neve, freddo pungente e poi caldo torrido!

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