L’archeolog* che si appresta a indagare e interpretare contesti come quello egizio o quello greco-romano sa già che avrà a disposizione un mare magnum di fonti e resti, di natura anche profondamente diversa tra loro; mare che, in alcuni casi, può perfino spaventare per via della sua mole, ma che, in generale, àncora la ricostruzione storica a tanti punti fermi, permette una visione del medesimo fatto da diversi punti di vista e di coglierne più sfaccettature e dettagli.
Esistono, invece, contesti in cui tutto ciò non è possibile, per via dell’esiguità delle testimonianze a disposizione. Contesti in cui il mare magnum di cui sopra si riduce a un sottile rigagnolo, che – come tutti i rigagnoli – tende a scorrere in una medesima direzione, senza possibilità di replica.
Due nobili esempi di quanto appena detto sono il regno di Mitanni e il regno di Urartu. Se questi nomi non vi dicono assolutamente nulla, non c’è molto da stupirsi o da preoccuparsi. Infatti, pur essendo ben noti a chi si occupa di Vicino Oriente, questi due regni sono stati letteralmente dimenticati dalla storia. E sapete perché? Perché nonostante diedero vita a due fiorenti regni durante lunghe porzioni dei due millenni precedenti alla nascita di Cristo, le testimonianze che abbiamo a disposizione per ricostruirne vicende e aspetti sono estremamente poche. Ma soprattutto, sono testimonianze indirette, cioè prodotte da quelle culture che con esse confinarono e si relazionarono, spesso in modo conflittuale. Testimonianze di natura politica, diplomatica, celebrativa, prive dell’immediata esigenza di raccontare o descrivere, ma che anzi strizzano l’occhio a esigenze di natura propagandistica e/o demonizzante, e ben si sa quanto sia difficile fare affidamento su fonti di tale natura.
Il caso di Mitanni è – in tal senso – emblematico. Di questo potente regno che rivaleggiò con successo con le grandi superpotenze del II millennio a.C., dall’Egitto dei faraoni all’impero ittita fino a quello assiro, non solo sono scarsissime le testimonianze archeologiche ed epigrafiche dirette, che quindi potrebbero illuminare “dall’interno” la nostra civiltà (nemmeno il sito della capitale, Washukanni, è noto), ma le poche fonti che abbiamo sono prodotte proprio dagli scomodi vicini, con cui Mitanni ebbe rapporti di natura commerciale e diplomatica, ma anche e soprattutto di natura conflittuale e militare, i cui sovrani non esitarono a chiamarsi reciprocamente “fratelli” prima e dopo, però, essersi dati battaglia.
Ecco il piccolo rigagnolo che scorre in un’unica direzione: poche testimonianze e ancor meno punti di vista eterogenei.
Per il regno di Urartu, momento tra i più illustri della storia armena, la situazione archeologica è un po’ più felice, ma il problema delle fonti è altrettanto spinoso. La gran parte delle testimonianze scritte a nostra disposizione per ricostruire le vicende del potente “paese di montagna” (questo il significato di Urartu) è – infatti – prodotta dall’acerrimo nemico, l’Assiria, con cui durante il primo millennio Urartu rivaleggiò.
E ben si sa quanto possa essere pericoloso e difficile ricostruire oggettivamente la storia di un popolo a partire dal punto di vista esclusivo del nemico di quel popolo. Va a finire che anche il nome con cui è ricordato sia il nome con cui il nemico lo appella (Urartu è infatti parola assira).
Niente di più fastidioso e scorretto.
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