Diamanti di Ferzan Özpetek /1: una rappresentazione corale con 18 protagoniste

Abbiamo scelto di proporvi due punti di vista, uno femminile e uno maschile, su uno dei film che stanno facendo molto discutere: l’ultima pellicola di Ferzan Özpetek, Diamanti, una storia girata da un regista uomo, ma caratterizzata da un cast prevalentemente al femminile. In quest’altro articolo, vi abbiamo proposto l’opinione di Marco Mottolese. Qui di seguito, vi proponiamo il punto di vista di Stefania Malerba.

Si chiama Diamanti, parla di donne, di emancipazione e di incontro ed è l’ultimo film di colui che viene considerato uno dei grandi maestri di regia dell’epoca contemporanea, Ferzan Özpetek. La sua fama lo precede, l’attesa delle nuove uscite fermenta il pubblico e i film riempiono le sale cinematografiche, non smettendo di stupire. Dagli esordi con Il bagno turco (Hamam) del 1997, il successo del regista turco, naturalizzato italiano, non è mai scemato, confermandosi, seppur discusso, a ogni uscita, da Le fate ignoranti, a Mine vaganti, Rosso Istanbul, fino a Diamanti, suo quindicesimo film.

Nel cast, ci sono diciotto attrici italiane – chi accompagna il regista dai primi lavori, come una costante rassicurazione, per l’autore e per il pubblico, e chi è stata selezionata per la prima volta proprio per questa produzione – in una rappresentazione corale in cui chiunque, da Alberta e Gabriella Canova, proprietarie della sartoria (interpretate da Luisa Ranieri e Jasmine Trinca), a ogni donna che popola quel luogo, è protagonista.

La cornice è quella della Roma degli anni Settanta, accompagnata dalla voce inconfondibile di Giorgia e il racconto si incentra sul micro-mondo, poi esteso, di una sartoria che si occupa di costumi per cinema e teatro, e delle persone – molte donne, pochi uomini, un solo bambino – che la abitano. Accanto a loro, ad assistere da dietro le quinte, poi sulla scena, un Ferzan Özpetek presente e partecipe. Con lui e con l’apparizione luminosa, letteralmente, di Elena Sofia Ricci, si chiude il cerchio delle attrici di Diamanti. Ad altri tre diamanti, Mariangela Melato, Virna Lisi e Monica Vitti, va la dedica del film, con l’invito di poter lavorare insieme un giorno. Da Özpetek ci si può aspettare quasi di tutto, chissà.

Non sono una critica cinematografica, al massimo una commentatrice seriale – non di serie TV, però di continuo – eppure, attratta dalla voglia di vedere uno dei film che, nelle ultime settimane, ha fatto più parlare di sé, prima ancora del lancio ufficiale, una delle scorse sere, sono andata al cinema anche io, e mi sono seduta, finalmente, in una sala piena di gente. Mi sono alzata due ore e quindici minuti dopo, quando i titoli di coda erano conclusi, le luci si erano accese e la gente cominciava a defluire, incerta, intorpidita, commentando tra sé, e non mi è pesato.

Cosa mi ha lasciato Diamanti, a parte una gran voglia di cinema e libertà? Leggerezza. «Strano», me lo dico da sola. Oltre due ore di film, a guardare persone – soprattutto donne – che si muovono sulla scena, tra spazi interni di edifici bellissimi e giardini verdi e rumorosi. Due ore e un quarto di donne che lavorano, urlano, soffrono, gridano più forte di quanto le loro voci riescano a fare, piangono, si insultano, non riuscendo a contrastare la violenza maschile che le opprime, si difendono, da sole e a vicenda, si riadattano, poi si ribellano, contro uomini che non le rispettano, mariti che le maltrattano, compagni che non le comprendono, figli e nipoti che non le ascoltano.

Non solo; si ribellano anche tra loro, contro altre donne che non le considerano all’altezza, contro chi non è stato capace di provare empatia, contro chi non è riuscito a farsi amare, contro chi ha sottratto senso alla vita. Infine, si ribellano contro sé stesse, inadatte a volersi bene, ad accettarsi deboli, impreparate ad accogliere il dolore e, ancora meno, a ripartire. Eppure ripartono comunque.

Due ore e un quarto di coppie che lottano contro la quotidianità, la malattia mentale, la presenza, poi l’assenza, di una figlia, la depressione, la paura, gli anni, la morte; poi il tempismo, tremendo, della vita che non sempre segue il corso che vorremmo darle e ci costringe a scegliere, o più spesso sceglie per noi. Due ore e un quarto di sguardi intensi e primi piani, di parole non dette, di pensieri da reprimere, di biglietti scritti di nascosto da dimenticare e di commenti fatti a mezza voce. Due ore e un quarto di attesa, incertezza, timore, fastidio

«Leggerezza», dicevo? Anche, perché in due ore e in quarto, c’è stato questo e altro. Ci sono due sorelle che si perdono per anni, pur rimanendo vicine, e dopo, quasi sull’orlo del precipizio, si ritrovano, per abbracciarsi. C’è stata rinascita, rivincita, solidarietà e condivisione. Ci sono stati ironia, sarcasmo e comicità – di cui Geppi Cucciari e Paola Minaccioni sono grandi interpreti – su come il mondo possa essere decisamente fuori dal nostro controllo e dalla nostra portata, eppure, noi ci siamo dentro comunque, anche se scomode. C’è stato il rosso intenso. E la luce di più di un solo diamante. C’è stato il cinema, c’è stato il teatro.

«Non siamo niente, ma siamo tutto», è la voce di una delle protagoniste che si alza e dice la verità, davanti a chi ha bisogno di sapere di non essere sola. «Non siamo nulla», eppure c’è altro che si possa desiderare se non essere fedeli a sé stesse nell’unico modo che la vita consente? Nel quotidiano, con i denti stretti, a fatica, ma leggere, se viste attraverso la cinepresa di Ferzan Özpetek. È possibile?

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