Non è una dalla lacrima facile, Gabriele Münter: una tipetta decisa che a vent’anni ha già girato il mondo e che ha scelto la professione dell’artista nonostante per le donne, alla fine del XIX secolo, non sia proprio una strada lastricata di rose. Però quando nella primavera del 1920 – a questo punto di anni ne ha quarantatré – riceve quella lettera, scoppia in un pianto di rabbia.
Non è nemmeno una stupida: le storie finiscono, lo sa bene. Però c’è modo e modo.
Improvvisamente ha la consapevolezza che l’uomo con cui ha condiviso una parte della vita e l’entusiasmo dell’arte è un colossale bidone. E che quel bidone risponda al nome di Wassily Kandinsky non la consola per niente.
Era stato lui – sposato, ma si sa come sono gli artisti – a cominciare a corteggiarla quando lei si era presentata alla Phalanx Schule di Monaco di Baviera (l’unica in zona ad accettare studentesse donne). Mai fidarsi del professore con gli occhialini e l’aspetto innocuo. All’inizio lei non ne voleva sapere, ma poi come resistere a qualcuno che condivide la tua passione? Che sa insegnarti e che sa ascoltarti?
Buttati all’aria gli scrupoli, il loro nido d’amore diventa Murnau, un paesino fuori Monaco, dove acquistano una casa con il tetto azzurro e la facciata a strisce come una torta a strati. Lì ospitano gli amici (la pittrice Marianne von Werefkin, i pittori Alexej von Jawlensky, Franz Marc e August Macke), lì lei fa a Paul Klee un ritratto delizioso, dove la testa vagamente quadrata del pittore emerge da una poltrona blu. Lì, soprattutto, dipingono. E danno vita al Cavaliere Azzurro.
Però Gabriele non è una ragazza facile a piegarsi. Non è una groupie che fissa il maestro con gli occhioni spalancati e gli affida la manina perché sia lui a guidare il pennello. Anzi, quando Wassily comincia a disgregare la materia, a scompaginare le forme seguendo ritmi musicali e a travalicare la figura per l’astratto, lei osserva i suoi acquerelli con aria dubbiosa, scuotendo la testa, e sostanzialmente gli dice: “No, grazie: non fa per me”. La pittura di Münter è altro: colore pastoso e materico, contorni netti, un postimpressionismo carnoso che, sì, a volte sfiora l’astratto, ma seguendo altre vie.
Ma non è quello a spezzare l’incanto. È la guerra. La fuga in Svizzera, prima, poi il ritorno di lui in Russia. Quando si ritrovano a Stoccolma tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 lei lo capisce che qualcosa è cambiato. Ma crede che almeno la lealtà, almeno quella, non sia svanita.
E invece ora, a Murnau, oramai ultraquarantenne e sola, scopre che lui si è sposato.
Lui, quello che definiva il matrimonio una gabbia borghese…
Tre anni prima.
Praticamente una manciata di mesi dopo averla salutata a Stoccolma.
La sposina, Nina Andreevskaja, ha diciassette anni quando incontra Kandinsky, trentatré meno di lui. È dolce, malleabile, plasmabile; non fa l’artista e in un battibaleno è pure incinta. Un’iniezione di giovinezza alla quale lui proprio non può resistere.
Almeno un telegramma, però, a Gabriele avrebbe potuto mandarlo.
Quella Nina così arrendevole. Che nel 1976, nella sua autobiografia (e meno male che Münter era già morta e non l’ha letta…) scriverà: “Una donna che ama davvero un uomo deve annullarsi davanti a lui ed essere disposta a molti sacrifici per permettergli di compiere il suo lavoro senza problemi”.
Una piccola rivincita però alla fine Gabriele se la prende. Quando nel 1922 – la sua ferita ancora sanguinante – l’ex fidanzato avrà il coraggio di chiederle indietro tutti i suoi lavori rimasti a Murnau, lei si rivolgerà a un legale. E vincerà la causa.
Una bella fortuna anche per noi, visto che, nascoste nella casa colorata come una torta, quelle opere di Kandinsky sono scampate alle razzie naziste.