Fabio Viale nel suo nuovo studio: “gli spazi industriali hanno un insostituibile valore estetico”

Abbiamo incontrato lo scultore Fabio Viale nel suo nuovo studio torinese, dove le sue monumentali sculture in marmo si sposano alla perfezione nel contesto di uno vecchio stabile industriale magistralmente recuperato.

Fabio Viale ha recentemente trasferito il suo studio in un vecchio stabile industriale, recuperandolo dopo circa vent’anni di abbandono e dando nuova vita a uno splendido esempio di archeologia industriale le cui forme originali sono state fedelmente salvaguardate. Il luogo dell’appuntamento per l’intervista è tra il quartiere Barriera e Borgo Vittoria, Nord est di Torino: una zona di vocazione industriale costituita da un reticolato di strade che si intersecano, formando incroci così simili fra loro che perdersi è un attimo.

L’architettura è quella tipica della Torino operaia della prima periferia: capannoni industriali si alternano a palazzine residenziali dove da generazioni alloggiano le famiglie dei lavoratori impiegati nelle tante attività industriali della zona. L’apparente anonimità di questi stabili cela, a uno sguardo più attento, una serie di dettagli architettonici appartenenti ad un’epoca in cui vigeva un certo gusto unito alla funzionalità nella progettazione dei luoghi del lavoro, accortezze che ad aggi sembrano essersi perse, almeno nella maggioranza dei casi. 

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Il nuovo studio Viale a Torino, 2024

Mi trovo difronte un’architettura complessa e maestosa, composta da tre ampie campate a shed, un tipo di copertura ad ampie vetrate con il quale si riesce a ottenere un’illuminazione diurna molto uniforme. Al mio arrivo vengo accolto da un ragazzo sorridente e impolverato che mi fa cenno di entrare. Mi scorta in un ambiente molto ampio, luminoso e professionale, che all’apparenza ha qualcosa di ospedaliero data la prevalenza di colore bianco e i camici con mascherina indossati dalla squadra di lavoro. Lo spazio è suddiviso in diversi ambienti, ognuno dedicato alle diverse fasi di lavorazione del marmo: dalla sbozzata alla finitura pittorica dei celebri tatuaggi realizzati ad arte sulle repliche di sculture classiche, opere che hanno reso Fabio Viale tra gli artisti italiani più apprezzati nel mondo. La luce naturale diffusa in quell’ampio ambiente irradia le monumentali e maestose sculture, le cui forme auliche e arrotondate sembrano trovare, nel contrasto con la severità razionalista del loro contenitore, un equilibrio e un’armonia tali da conferire al tutto qualcosa di mistico.

Fabio Viale, 2024.

Trovo Fabio impegnato nella disposizione ad occhio, ma con precisione chirurgica, dei segni dove realizzare le scanalature del battistrada di un enorme pneumatico riprodotto in marmo nero che lo renderanno, al solo sguardo, sorprendentemente aderente al vero. Dopo un giro dello studio e uno sguardo ai nuovi lavori, cominciamo subito l’intervista senza indugi; è incredibile quanto in un ambiente lavorativo così professionale sia maggiormente percepibile il valore del tempo che scorre:

Cominciamo l’intervista con una domanda banale ma molto utile ai lettori: chi è Fabio Viale? Come ti definisci e qual è la tua posizione riguardo alla generica definizione di “artista” rispetto a quella di “scultore”? 

Fabio Viale è entrambe le cose, ma ho sempre pensato alla figura dell’artista come un’entità senza regole e confini. Lo scultore, invece, lavora all’interno di un perimetro dal quale non può uscire. È un lavoro in contrazione, che obbliga a una tensione costante

Sei fra gli artisti italiani più considerati nel panorama contemporaneo internazionale e, oltre ai numerosi consensi, raccogli anche critiche e polemiche. Che effetto ti fa? 

Inevitabilmente quando produci qualcosa di buono ci sono delle ostilità. Credo che sia la normalità, la natura delle cose. A ogni modo, non ho mai visto la materia come una forma di ‘dimostrazione’, ho sempre cercato di farla divenire un tramite sfruttando tutte le sue potenzialità. La critica mi ha sempre lasciato indifferente; infatti, ho sempre fatto ciò che ho voluto in totale autonomia, senza cercare i consensi di nessuno. Trovo, tuttavia, che sia un aspetto caratteriale che indica debolezza: perché sapersi mettere in discussione ti permette di vedere le cose in un modo differente. 

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Oltre al riferimento agli antichi e quello alle culture extraeuropee che poi ricoprono i tuoi marmi di linguaggi multietnici, ci sono altri punti di riferimento, anche e soprattutto esterni al mondo dell’arte, ai quali ti ispiri o hanno rappresentato un cardine della tua poetica? 

Ho sempre cercato un linguaggio universale che potesse comunicare attraverso i temi coerenti con il mio quotidiano. Senza questo legame con la realtà trovo che un’opera perda la sua contemporaneità. Ciò che vedo entra inevitabilmente in quello che faccio e spesso accade che le immagini create divengano dei simboli di comunicazione che gli altri adottano per esprimersi.

I marmi tatuati sono le opere che forse hanno rappresentato una svolta nella tua carriera. Come hai sviluppato la tecnica di tatuare il marmo? Hai provato diverse soluzioni oppure è stata subito la prima scelta?

La tecnica è fondamentale, senza la capacità è impossibile ottenere un risultato. I marmi tatuati sono divenuti un successo mondiale perché sono il frutto di test e di esperimenti durati anni e realizzati in collaborazione con noti studi di restauro e conservazione.

Cosa del linguaggio visivo della Yakuza giapponese o dell’iconologia dalla criminalità russa ti ha attratto a tal punto da farne linguaggi così ricorrenti nelle tue opere? 

Il tatuaggio criminale è fortemente narrativo di un vissuto che spesso non incontra un’efficacia estetica, esprimendosi invece attraverso la forza universale del simbolo. L’idea di tatuare i marmi utilizzando il tattoo come decorazione non avrebbe creato la dualità che, invece, si viene a generare grazie al contrasto. Il tatuaggio criminale evoca un mondo in netta contraddizione con i valori e i preconcetti attribuiti alla scultura classica. Da questi contrasti si genera un’energia che per lo spettatore diventa attrazione.

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Tra i tanti temi di attualità che sei solito trattare, più o meno velatamente, nelle tue opere, il tema dei migranti mi sembra una costante sulla quale sei tornato a più riprese, perché?

Da quando sono piccolo, essendo cresciuto nelle case popolari, ho sempre vissuto il tema degli ‘ultimi’ come la mia quotidianità. Credo che sia normale affrontare questioni che riguardino la sensibilità di tutti. In certi casi l’ho vissuta quasi come un dovere, rischiando anche di essere frainteso, ma le opere che ho generato sono semplicemente delle fotografie di un nostro triste presente.

Produrre le tue opere ti gratifica sempre allo stesso modo? Produrre arte per soddisfare il mercato credi che tolga qualcosa all’aspetto creativo?

Ci sono opere che penso, ma di cui non so prevedere gli effetti, sia su di me che sul pubblico. Queste opere sono le capostipiti di un’eventuale produzione che vedo sempre come un approfondimento. Difatti, come in tutte le discipline, la ripetizione porta alla ‘perfezione’. Quando un’opera raggiunge un successo di pubblico, inevitabilmente genera un desiderio e di conseguenza un mercato. Sapere che ci sono molte persone che ti ‘desiderano’ è una grande soddisfazione, ma è anche la diretta conseguenza di un buon lavoro.

Da sempre esiste un atavico rapporto fra arte e denaro, artisti e committenze; che rapporti hai con i tuoi collezionisti? Ti piace lavorare su committenza? 

Conosco una minima parte dei collezionisti che acquista le mie opere. Ho fatto qualche lavoro su commissione e devo dire che sono sempre stati degli esperimenti, alcuni riusciti, altri meno. Quando penso a un lavoro, non sento il desiderio di condividerlo, spesso sento il bisogno di realizzarlo e di valutarlo in solitudine. L’interferenza di un terzo in questa fase potrebbe generare molta confusione.

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Una foto degli anni ’50 dello stabilimento Galantini

Veniamo alla scelta di questo luogo per farne il tuo nuovo studio, cosa ti ha portato a decidere di recuperare una vecchia fabbrica?

Da sempre sono attratto dall’inusuale dimensione che offrono gli spazi industriali, prima di questo anche il mio vecchio studio era uno spazio industriale che ho ristrutturato e adibito a studio-abitazione, poco lontano da qui. Per quello spazio ho da subito avuto un vero colpo di fulmine, lo apprezzavo dal punto di vista estetico e funzionale. Lasciarlo non sarebbe stato facile, per questo ho deciso di non venderlo, proprio per una questione di affezione. Ma con il crescere del lavoro e la necessità di nuovi spazi per contenere le mie opere, mi sono dovuto muovere alla ricerca di uno spazio che conservasse le stesse caratteristiche garantendomi più metratura e libertà di movimento.

A Torino la situazione è diversa rispetto a Milano, dove qualsiasi spazio periferico rappresenta una possibilità di utilizzo e ha quindi un valore di acquisto molto alto. A Torino l’offerta è alta e la richiesta inferiore quindi ci sono molte possibilità e occasioni per l’acquisto di spazi industriali dismessi, se non altro per la vocazione industriale di questa città.  Da sempre subisco il fascino degli spazi industriali di una volta, per l’insostituibile valore estetico e architettonico che li rende sicuramente più gradevoli dei capannoni moderni. Quando mi sono imbattuto in questo stabile ho avuto da subito l’impressione che fosse stato un luogo importante di questo quartiere, con delle linee architettoniche splendide, mantenute originali dagli anni ’50 ad oggi, nonostante 20 anni di abbandono.

Cosa sai della storia di questo edificio e del suo costruttore?

Il Fabbricato era la sede della Galantini. Una volta dismessa quell’attività in questi ambienti si facevano lavori al tornio. È stato costruito nei primi anni ’50 e il progetto è di Felice Bertone, un noto ingegnere divenuto celebre per aver progettato il brevetto di una particolare tipologia di copertura “elicoidale”, utilizzata in più larga scala anche nel Teatro Regio di Torino di Carlo Mollino. Sono delle falde disposte una in successione all’altra intervallate da finestre triangolari di illuminazione ed aerazione. Sono definite a “dente di sega doppio”, tipo sched. Ho trovato queste informazioni in una relazione dell’epoca autografa di Bertone dove ne spiega esattamente la composizione. 

Cosa ti ha convinto che fosse il posto giusto?

Mi ha affascinato il fatto che nella sua conformazione architettonica, l’ambiente centrale risultasse perfettamente illuminato durante l’arco di tutta la giornata grazie a questo sistema di copertura a vele di acciaio e vetro con doppia esposizione nord/sud. In più, anche la parte del basso fabbricato è caratterizzata da lucernari, dandomi delle condizioni di illuminazione ottimali che per la lavorazione del marmo, che è un aspetto fondamentale.

Spostiamoci a Pietrasanta, dove esponi nella collettiva all’ex fonderia della Galleria Poggiali, so che stai anche sistemando una vecchia cava sempre nei pressi di Pietrasanta per farne un’oasi di tranquillità e riposo, anche in questo caso un luogo del lavoro a cui dare nuova vita… 

Lo spazio di Pietrasanta nasce con l’intento di creare un parco di sculture visitabile che abbia un forte legame con la natura circostante.

Quali sono i tuoi progetti futuri? Artistici e non solo.

I prossimi anni saranno dedicati alla realizzazione di opere site specific che rimarranno in modo permanente in questa meravigliosa cava a Pietrasanta. 

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