Il 10 novembre del 1956, a sud di Port Said, un mitragliatore egiziano strappa alla vita David Seymour, 45 anni, allora presidente della Magnum di cui è anche co-fondatore.
Chim, così era meglio conosciuto, tentava di onorare quella che si rivelerà la sua ultima missione: fotografare, ad ostilità ormai cessate, uno scambio di prigionieri per un reportage sulla Crisi di Suez.
Senza alcuna formalità e accompagnato dal solo fragore della violenza, se ne andava uno dei più grandi fotografi del Novecento, secolo che si è impegnato a documentare nelle sue geografie di guerra e speranza che trovano oggi traduzione nella grande monografica David “Chim” Seymour. Il Mondo e Venezia, allestita presso il Museo di Palazzo Grimani con la curatela di Marco Minuz e visitabile fino al 17 marzo 2024. Nato a Varsavia da ebrei polacchi, Dawid Szymin – noto con lo pseudonimo “Chim”, che richiama la pronuncia del suo cognome abbreviato (scim), divenuto “Seymour” per sfuggire ai persecutori – si concede presto alla cattura del mondo, dapprima più profondamente esperito con gli studi di chimica e fisica a Parigi. Nel suo caso, quello di un uomo costretto a cambiare nome e continente per eludere le attenzioni antisemite di matrice nazista, è facile scoprirsi bisognosi di una più profonda comprensione di quanto ti circonda. Da qui, certo, tanto di quel sapersi destreggiare nella polisemia dei luoghi che attraversa, alla costante ricerca del senso delle cose e preferibilmente situandosi all’incrocio dei mondi di crisi come, ad esempio, quello cosmopolita di New York, che assieme a lui accoglierà, agli inizi della Seconda Guerra Mondiale, un numero sproporzionato di ebrei europei.
La Serenissima è garbata e autorevole nell’introdurre all’eclettismo di Seymour nel cinquecentesco Palazzo Grimani, da un lato rispettosamente compresso nella densità del sestiere di San Marco, al cui museo si accede attraverso una stretta calle, e dall’altro composto ad affacciarsi sul romantico Canal Grande, capace di mitigare il disincanto di ogni uomo. L’esperienza stessa della visita non si esaurisce nella fruizione dello spazio fotografico, ma comincia laddove l’anima si predisponga alla danza nel dedalo urbanistico di Venezia, sicuro avamposto di pensatori ed asceti pure nella sua caleidoscopica tortuosità.
Contraltare della misurata espressività rinascimentale dell’edificio si fa, al suo interno, il respiro profondo dell’opera di David Chim Seymour e del suo articolato percorso umano e professionale, culminato, nel 1947, nella fondazione, insieme a Capa, Cartier-Bresson, Rodger e Vandivert, dell’agenzia Magnum, della quale diventa presidente nel 1954, dopo la morte del primo, anch’egli caduto in guerra. Il luminoso allestimento, vero e proprio viaggio attraverso la personalità del fotografo polacco, prima avvicinata con una sezione di scatti biografici che lo ritraggono fin dalla tenera età e poi assieme agli amici di sempre, si snoda tra le essenziali sezioni dei più importanti reportage realizzati in circa vent’anni, dal 1936 al 1956, nei più critici teatri politici e sociali d’Europa, come il Fronte popolare francese (1936-1938) o la guerra civile spagnola (1936-39), dove David è immerso nella restituzione di una complessità umana che, a ben vedere, è retroterra concreto delle tragedie mediaticamente trasfigurate come quelle che abitiamo. Non manca la complessità del mistero: fra le altre cose, la mostra accoglie alcuni preziosi scatti contenuti nella valigia ritrovata in Messico nel 1995, all’interno della quale erano i negativi di Chim, Robert Capa e Gerda Taro, pilastri indiscussi del fotogiornalismo di guerra di cui il prezioso oggetto sapientemente testimonia.
“Chim usava la sua macchina fotografica come un medico utilizza lo stetoscopio, e faceva una diagnosi al cuore dei suoi soggetti. Il suo era troppo vulnerabile”, dirà di lui, poco dopo la morte, Henri Cartier-Bresson. Non si stenta a rintracciare, nella mai ardita perché composizione dei suoi scatti, quella profonda essenzialità con la quale Seymour si preoccupava di qualificare il suo soggetto, fosse esso Audrey Hepburn, Winston Churchill o l’ultimo degli ultimi, a dire un bambino di pochi mesi immortalato, ridente nella sua culla, tra le macerie di un’Europa martoriata dalla Seconda Guerra Mondiale. Invero, la personificazione della speranza, quella scovata nelle risa dei piccoli israeliani negli allora primi anni dello Stato d’Israele, che oggi sembra non avere fatto tesoro della sua tragedia storica.
Nell’economia della mostra è quindi cruciale il ruolo di Venezia, a cui David, che pare l’abbia amata, ha dedicato un ricco reportage che colloca la sua retrospettiva in diretta continuità con Fotografare da Venezia in poi, monografica di Inge Morath già ospitata lo scorso gennaio presso gli spazi del Museo.
La città lagunare, culla morale del mondo d’acqua, tradisce una funzione duplice: nel voler parlare di sé attraverso gli sguardi di chi l’ha fotografata, date le decisioni istituzionali che ne lusingano i tramonti, con insuperabile grazia ottiene di mitigare l’acredine dei luoghi che, fra strazio, rassegnazione e fiducia, David Seymour immortala nel giro di un ventennio; un compito arduo e nobile, ma è la Serenissima, l’incrocio dei mondi. Bambini, dunque, ma uomini e donne sfigurati da un’overdose di emozioni affollano i suoi tempi di guerra, intervallati dai frangenti in cui, per esempio, è Maria Callas a catturare la scena, schiva e bellissima come si addice alla Divina.
Le sinfonie della guerra e della crisi hanno sempre accompagnato lo spartito della vita di David Seymour, mai corrotto – nella lettura del mondo – dalla consapevolezza del pericolo, da maiuscolo reporter quale è stato. Lì, laddove non ci si cura l’incertezza della propria presenza nel mondo, demartinianamente intesa, si innesta il genio. Andate a vedere un maestro del Novecento.