Finalmente nella sua città, Brescia. Finalmente, una grande, straordinaria mostra (“Giuseppe Bergomi. Sculture 1982 / 2024“, oggi arrivata alle sue battute conclusive, visitabile fino a domenica 1 dicembre al Museo di Santa Giulia e al Castello Grande Miglio). Così, Giuseppe Bergomi, settant’anni suonati, ha restituito non solo ai bresciani, ma a quanti hanno sempre amato la sua scultura, e a chi ancora non la conosceva, e grazie a questa straordinaria esposizione ha potuto conoscere meglio (anche attraverso il bellissimo e completo catalogo edito da Skira), un po’ di quella sapienza, di quella delicatezza, di quella argentina limpidezza della realtà trasfigurata attraverso la sintesi della forma fatta solo di volti, di corpi, di gesti, di espressioni, di pochissimi ed equilibrati contrasti di colori (“dentro l’equilibrio che uso nel dosare i colori io ci vedo, senza averlo deciso a priori, gli accordi e le armonie di Mondrian”), del delicatissimo ed equilibrato gioco di volumi e di geometrie, pur restando nel più terso ambito della figurazione, che è l’essenza stessa della sua pratica scultorea.
Scultore, sì, per vocazione, potremmo dire, giacché la storia di Giuseppe Bergomi è quella di un ex giovane pittore che si è, d’un tratto, e inaspettatamente, e ancora in anni giovanili, votato alla ricostruzione plastica del mondo, del “suo” mondo: un mondo fatto di pochissimi soggetti, quasi sempre appartenenti al suo ristrettissimo ambito famigliare – la moglie Alma, le due figlie Ilaria e Valentina, e oggi, come una favola felice che sembra non fermarsi mai, anche le nipotine, figlie della primogenita Ilaria –, che, come in una meravigliosa metafora del vivere, finiscono per rappresentare, attraverso i loro gesti essenziali, l’universo stesso delle emozioni, dei gesti e delle relazioni umane dell’intero mondo.
Così è, e così agisce, su di noi, quasi sempre, l’arte migliore, quella più potente ed efficace, che non vuole “dire” qualcosa a priori, ma che sa dire ed esprimere l’intero mondo delle emozioni, delle pulsioni e delle relazioni umane, attraverso ciò che ha immagazzinato, visto, conosciuto, con una tecnica impeccabile ma che non ha bisogno di divagare in virtuosismi inutili, che rischierebbero di sovrastare il senso più profondo della rappresentazione e della ricostruzione metaforica del reale.
Bresciano di nascita ma trapiantato da oltre trent’anni nella quiete di una vasta e luminosa casa-studio immersa al centro di un grande giardino a Ome, piccolo borgo di tremila anime arroccato fra i colli a pochi chilometri dalla città, Bergomi ha costruito quella che si dice la sua “carriera” d’artista, attraverso la riproposizione di una pratica scultorea che richiama, quasi istintivamente, il meglio della cultura figurativa del Novecento, dal Realismo magico alla Nuova oggettività, passando per quegli artisti “minori” che hanno fatto grande la storia dell’arte del secolo scorso, ma con evidenti richiami alla statuaria quattro e cinquecentesca e alla plastica antica, etrusca e romana, in sottofondo: eppure, non è un esercizio retorico dire che nelle sue sculture c’è tutta la nostra modernità (si può ancora usare questo termine?) di uomini e di donne di questo passaggio di secolo, la nostra solitudine di uomini e di donne di un’epoca incerta, dove il nostro stesso essere “umani” è messo in discussione, il nostro ritrovarci, però, in piccoli, minuti gesti: il fare la doccia, il bidè al mattino, star seduti sul letto o in poltrona, l’incrociarci, nudi, su una soglia – la porta del bagno, probabilmente, in un mattino qualsiasi di una giornata qualsiasi –, e nel mentre guardare noi stessi, nello specchio, e pensare d’un tratto, per un infinitesimo istante, al nostro essere soli nel mondo ma accanto e insieme ad altri, umani come noi, fragili e complessi come noi, contraddittori e a volte sofferenti come lo siamo noi, bisognosi, anche loro, come noi, di affetto, di amore, di attenzioni, persone care e amate con cui abbiamo condiviso vita, affetti, amori, gesti, sguardi, pensieri, dolori, battaglie – ed essere, in quel momento di sospensione del tempo e del fremere della vita, straordinariamente veri e forti e disarmati, così nudi, come siamo, così vicini e così lontani a chi ci vuol bene e a cui vogliamo bene: noi, isole in un mondo caotico e sempre più contorto e imbizzarrito, eppure consapevoli del nostro essere in comunione con gli altri, in ogni momento, con i nostri cari, i nostri affetti, i nostri “prossimi”, come si diceva un tempo, ovvero chi è vicino a noi e inesorabilmente, anch’egli, solitario e nudo e inerme in questo mondo.
E anche quel dialogo muto, fatto di sguardi e di gesti silenziosi, quel bisogno di amore e di affetto e di attenzione che anch’essi, come noi, provano, non è che lo specchio di un dialogo e di una relazione più ampia: quella con il resto del mondo, con la massa dei tanti che non conosciamo e non conosceremo mai o che incontriamo solo di sfuggita, che ci sfiorano per strada senza che le nostre vite si incrocino mai, ma che fanno, anche loro, parte di questo mondo, del grande e vasto e straordinario bacino dell’umanità, oggi fragile, insicura, disintegrata e incerta come forse non lo è stata mai prima d’ora.
È un dialogo silenzioso, quello intessuto da Bergomi con le sue sculture: un dialogo incessante, ininterrotto, reso magistralmente in questa mostra dalla relazione tra le diverse sculture, il loro guardarsi e relazionarsi l’una all’altra. La scansione dei gesti e dei volti creano delle linee, delle armonie, dei fili rossi, dei rimandi, che insieme formano una partitura, una sinfonia che verrebbe da dire quasi “perfetta”, tanto è magistralmente tenuta in equilibrio su un piano di relazioni che non possono essere descritte a parole, ma vanno viste, interiorizzate, fatte proprie e trascinate nel vivo delle nostre esistenze, dei nostri pensieri, dei nostri sogni, malinconie, speranze, delle nostre consapevolezze sul mondo, sulla vita, e sul trascorrere inesorabile del tempo: chi è, ci chiediamo, quella ragazza col cappello a righe, quella ragazza con le gambe raccolte, quella donna incongruamente accucciata su un tavolo da cucina, in formica gialla, quell’altra che dorme in poltrona? E chi è quella bambina che tiene in mano un gatto, e ci guarda da una distanza siderale, o quell’altra, con in testa una cuffia da bagno, che tiene in mano una spugna, così presente e insieme assente a se stessa, concentrata unicamente nel suo vivere l’età vuoi splendida, vuoi spaventosamente difficile e imperfetta della sua adolescenza?
È, lo sappiamo, Ilaria bambina, la primogenita, oggi divenuta donna e madre a sua volta, ma potrebbe in fondo essere anche nostra figlia, anch’essa bambina allora, e oggi anche lei già donna, o un’altra bambina qualsiasi forse, la vicina di casa o la figlia d’un amico, che un domani sarà anche lei donna, avrà forse figli, relazioni, amori, delusioni, condurrà battaglie e supererà ostacoli, avrà insomma una vita sua, eppure per un attimo è congelata, consegnata per sempre alla storia e alla memoria degli uomini futuri, in un istante di pura fissità infantile – immortalata nella plasticità di una scultura, eterna come sono eterne le donne e le bambine che hanno posato per le sculture etrusche o romane.
Ed eterne appaiono, oggi, anche quelle bambine che banchettano, assieme alla mamma e ai nonni (Bergomi e la moglie, come sempre), sul lettone dove lo scultore, quarant’anni prima, aveva già fissato, ieratici e insondabili come delle divinità fattesi umane, le due teste, ancora giovani, di se stesso con la moglie, Alma, divenuta nel tempo non tanto o non solo musa prediletta dell’artista, oltre che sua compagna di vita, ma anche e soprattutto una figura archetipale, così lontana e così vicina a tutti noi – dèa di un mondo fatto di piccoli gesti sobri e perfettamente ritmati, signora delle sottili e invisibili energie del mondo, che in ogni relazione, in ogni sguardo, in ogni gesto che facciamo sa cogliere, come avviene nei sogni, i significati reconditi e segreti delle nostre relazioni, dei nostri comportamenti, delle nostre paure e dei nostri desideri.
Tutto questo, in poche, calibrate forme, in pochissimi colori, in geometrie tenute attentamente l’una all’altra, è l’essenza della scultura di Giuseppe Bergomi, Beppe per gli amici, che della scultura ha fatto la sua “lingua madre”, la sua lingua sempre viva, che ci parla dei vivi, dei morti, del tempo che scorre, del senso della vita e del nostro stesso stare al mondo.