Dodici fotografi dell’agenzia Magnum, in mostra a Lecce fino al 5 gennaio 2025, raccontano quanto è straordinaria la quotidianità. Non ci sono scenografie impressionanti, effetti speciali o allestimenti mozzafiato a completare le opere degli artisti in mostra, solo la splendida cornice della Fondazione Biscozzi | Rimbaud ETS, nel centro storico della città, a pochi passi da Porta Napoli, in piazzetta Giorgio Baglivi, 4.
“La Puglia vista dai fotografi dell’Agenzia Magnum Photos”, titolo dell’esposizione, è la Puglia vista dagli occhi di chiunque ne abbia percorso le strade per più di una volta e senza troppe distrazioni. Le tre sale sono dedicate alle 35 fotografie di alcuni tra i grandi rappresentanti di una delle più famose agenzie fotografiche del mondo – Ian Berry, Bruno Barbey, Stuart Franklin, Burt Glinn, Harry Gruyaert, David Hurn, Guy Le Querrec, Herbert List, Martin Parr, David Seymour, Ferdinando Scianna, Patrick Zachmann – e si soffermano, ognuna in modo diverso, su tre grandi temi.
Nella prima sala, si entra a contatto con le persone. In fotografia, ci sono abitanti, turisti, immigrati, pescatori, lavoratori della terra, bambini che giocano e madri affacciate a una finestra. Ci sono sguardi diversi, alcuni sospettosi e ritrosi, altri curiosi, aperti, tutti straordinariamente veri. Volti che sembrano essere stati già visti, nelle rughe di una zia che vive in paese, nelle espressioni di chi, per lavoro o per riposo, si ripara dai raggi del sole, immortalati dagli obiettivi attenti e tenaci di alcuni tra i modelli della fotografia contemporanea. Nella seconda sala, è il paesaggio a essere protagonista: mare, popolato da animali e persone, campi e ampi spazi in cui la natura è al centro, e gli uomini sono figuranti che la abitano e, spesso, usano. Nella terza e ultima sala, l’incontro tra persone e paesaggio genera fotografie che raccontano una storia: quella delle architetture dei palazzi, della velocità delle auto e dei momenti di stasi in cui l’ambiente fa da cornice alle vite di uomini e donne.
Camminando tra le sale, vuote e silenziose, in un pomeriggio infrasettimanale, buio, ma non ancora così freddo, mi sono trovata a perdermi in pochi metri quadrati. Ero in una via di qualche borgo della regione, accanto a chi prendeva il sole in riva al mare. Poi, guardavo il tramonto da un muretto a secco e i pescatori che, in un’ora indefinita, sistemavano attenti le reti. Ancora, ero davanti al campanile di una chiesa che conosco e nelle piazze, tutte diverse eppure simili, di un borgo dell’entroterra che non ho mai visitato, ma di cui ho sentito parlare.
Sarà perché sono nata da queste parti, sarà che ciò che vedo mi è familiare, ma ogni fotografia sembra essere stata messa lì per ricordarmi tutto il bello e faticoso che esiste in quel mondo che io ho la fortuna di chiamare casa. Non c’è la mia famiglia, non c’è la mia via, non ci sono le persone che conosco. Ci sono alcuni dei luoghi che frequento, altri di cui ho sentito parlare, che mi sono stati raccontati e sono nella lista delle “cose da fare” e che rimando. Eppure, mentre percorrevo le tre sale dedicate alla mostra, facendo su e giù, allontanandomi e poi tornando indietro, non potevo far altro che pensare che quelle foto avrei potuto scattarle io. Non per la tecnica, indiscutibile, ma per il contenuto. Ogni foto è casa mia.
Ogni immagine scelta è una parentesi di un universo che conosco bene. Non vivo di pesca, ma ho visto qualcuno che lo fa, ho immaginato le sveglie prima dell’alba e ho visto le mani dure di chi non è preoccupato di sbrogliare i nodi delle reti, perché l’ha fatto per anni. Conosco qualcuno che lavora la terra, pochi, con macchinari moderni e attrezzature all’avanguardia, con una dedizione e una cura che solo chi sa che, nonostante tutti gli sforzi, nulla dipende realmente dalle sue azioni, può avere.
Ho visto le pale eoliche di una strada che percorrevo da bambina, quando mi sedevo davanti e tenevo la testa fuori dal finestrino, perché viaggiare in auto mi faceva sentire male, e guardavo come il vento muoveva quelle girandole enormi. Ho visto piazze bianche, palazzi imponenti, facciate di edifici belli e trascurati. Ho sorriso a persone che hanno ricambiato a loro volta e sono fuggita da occhi ostili. Ho percepito tutto il sole, il mare, il vento.
Ho sentito sotto le ruote della macchina e sopra i binari di un treno quanto è lunga la Puglia e quanto io poco la conosca. Ho visto la pianura diventare collina, poi monte e ho pensato a come fosse meraviglioso vedere una luce diversa in ogni luogo. Ho raccontato la bellezza delle palme e delle pale di fico d’india, e le increspature delle onde, dei campi sterminati e degli alberi secolari dai tronchi forti.
Attraversando le sale della mostra, ho camminato accanto alla bellezza che ho tutti i giorni sotto gli occhi e di cui pensavo di essermi accorta. E mi sono meravigliata, davanti a un mare che conosco, a uomini che ripetono ogni giorno le stesse metodiche azioni, a donne che sono state madri e che oggi sarebbero diverse, a bambini e bambine per strada, agli animali, alle piante, al bianco e nero e al colore. Quanto era bella la mia terra, ho pensato, variegata e imperfetta, in continuo cambiamento. Quanto è bella ancora oggi, la mia casa. E quanto ce ne dimentichiamo. Per fortuna esiste gente che, di tanto in tanto, viene a ricordarcelo.