Il festino di Meret Oppenheim

Sposata da dieci anni con Wolfgang La Roche, nel 1959 Meret Oppenheim è una bella quarantenne le cui prodezze artistiche sono state, ahimè, dimenticate da molti. Difficile riconoscere nella signora con l’eye-liner e gli orecchini a clip l’amazzone che, con il pube in primo piano, si faceva fotografare da Man Ray mentre leggeva, oppure dietro a un torchio da stampa, con il braccio macchiato d’inchiostro e la maniglia del macchinario davanti al sesso a imitare un gagliardo membro eretto. Ora, nel 1959, alla Galerie Daniel Cordier di Parigi, nella sala a lei dedicata della mostra EROS (Exposition intéRnatiOnale du Surréalisme) il pube sotto i riflettori non è suo.

Meret Oppenheim at the Printing Wheel Man Ray 1933

Dopo anni di silenzio, complice una guerra ma anche una profonda crisi creativa seguita al successo della sua Colazione in pelliccia, Meret ha messo alle spalle le paure e si è decisa a tornare in campo con Festino di Primavera. È un’opera potente, ironica, erotica, volutamente provocatoria, un guizzo capace di anticipare la grande body art ancora di là da venire da parte di un’artista che ha sempre difeso i diritti delle donne: una cena servita sul corpo di una modella nuda. Ma il senso viene frainteso.

Il Festino di Primavera di Meret Oppenheim

E Meret, accusata di usare la donna come oggetto, cade di nuovo nella delusione e nell’incertezza. È vero, il corpo femminile è un campo minato. Pensiamo a Carolee Shneemann e al suo video Fuses (reportage di una sessione hard con il fidanzato) creato per offrire finalmente il punto di vista femminile (e ovviamente travisato). Tutto dipende. Ma l’unico difetto di Meret è stato quello di essere troppo in anticipo sui tempi e di arrivare quando ancora il pubblico non aveva gli “enzimi” giusti per digerire. Invece no, non si può considerare opera d’arte una ragazza in bikini ricoperta di cioccolato su un buffet di dolci, come è accaduto di recente in un resort in Sardegna. Non c’è ironia né guizzo. Solo voyerismo e scarsa fantasia. Quella poveretta (che il bikini rende ancora più triste, ammettiamolo), più che a Meret Oppenheim fa pensare a Flavia Vento nella scatola di plexiglass sotto la scrivania di Teo Mammucari. Uno dei punti più bassi della tv Italiana. Raccontata meravigliosamente da Lorella Zanardo ne Il corpo delle donne. Ma questa, ovviamente, è tutta un’altra storia.

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