Oggi inauguriamo una nuova rubrica dedicata a riflessioni, spunti e annotazioni sugli elementi che compongono il cosiddetto ‘dispositivo espositivo’, ovvero quell’insieme di componenti critici, comunicativi e ambientali che accompagnano un’opera d’arte nel suo contesto espositivo. Ci riferiamo, in particolare, a pannelli didattici, testi critici e di curatela, cataloghi, allestimenti, guide, audioguide e supporti multimediali.
Per definire in modo sintetico e incisivo questa complessa rete di elementi, ci ispiriamo al concetto di ‘paratesto’, introdotto nel 1987 dal critico letterario Gérard Genette. Con questo termine, Genette indicava l’insieme di componenti che affiancano un testo principale—come il titolo, la prefazione, le note e le immagini di copertina—guidandone la lettura e l’interpretazione. Analogamente, il nostro sguardo si concentrerà su tutti quei dispositivi che orientano la fruizione di un’opera d’arte, influenzandone la percezione e il significato agli occhi del pubblico, parlando quindi paratesto espositivo.
Prima di entrare nel dettaglio di questi aspetti, è fondamentale partire dalla base, ovvero dal concetto di ricezione artistica…
Le tappe che segnano la formazione di ogni individuo sono spesso scandite da momenti rivelatori, autentiche epifanie, eventi capaci di sciogliere dubbi e sentimenti contrastanti che ci hanno tediato per anni. Talvolta si tratta di qualcosa d’improvviso come un’opera d’arte, altre volte di libri, saggi, film, ma anche discorsi, pensieri che cambiano il modo in cui osserviamo o addirittura percepiamo le cose.
Per me, uno di questi momenti è arrivato durante la mia prima lezione universitaria di una disciplina fino ad allora a me del tutto sconosciuta: la Ricezione Artistica. Era il 2013 e il corso era tenuto alla Ca’Foscari di Venezia dalla professoressa Roberta Dreon, considerata una delle maggiori studiose di questa affascinante materia in Italia.
Ma cos’è, in fondo, la ricezione artistica? È il modo in cui ciascuno di noi percepisce, interpreta e fa propria un’opera d’arte. Non si tratta solo di osservare un quadro o una scultura, ma di entrare in relazione con essa, di attribuirle significati che dipendono dalla nostra storia personale, ma anche e soprattutto di essere consapevoli di tutte quelle sensazioni fisiche che accompagnano l’esperienza di fruzione.
Una brevissima storia della ricezione artistica
Questa disciplina, come si può intuire, mette insieme nozioni provenienti da diverse discipline come l’estetica, la psicologia e la sociologia, attraversando un lungo percorso di evoluzione che ha coinvolto diversi intellettuali di diverse nazioni. Senza volerci dilungare sulle origini della materia, cerchiamo di mettere in luce i pensatori dell’ultimo secolo che hanno contribuito alla sua recente definizione. Non possiamo non iniziare con l’americano John Dewey, il quale, nel suo lavoro più importante, Art as Experience del 1934, fu uno dei primi a mettere in luce il ruolo attivo del pubblico, sostenendo come l’arte non sia un’entità isolata, ma un’esperienza che prende vita attraverso l’interazione con l’osservatore.
Secondo Dewey, il significato di un’opera si costruisce nel momento in cui viene vissuta, coinvolgendo emozioni, sensi e pensiero in un processo continuo e dinamico. La fruizione diventa quindi un’estensione dell’atto creativo iniziale, una trasformazione continua che si realizza attraverso il medium-opera d’arte, che, in quanto oggetto, funge da ponte tra l’atto di trasformazione dell’oggetto dell’artista e quella dello spettatore. L’opera d’arte quindi non è un’entità statica e autosufficiente, risultato di un’emanazione di verità completa, ma un elemento vivo che attiva un processo di significazione in continua evoluzione. L’arte è un’esperienza che si compie pienamente solo quando l’opera viene percepita e interpretata nel contesto della vita quotidiana, diventando un catalizzatore di emozioni, sensazioni che a loro volta producono una connessione con il mondo che ci circonda, ponendo le basi per quella verra poi chiamata “estetica partecipativa”.
Arrivano poi agli anni ’60, troviamo uno dei più grandi filosofi e semiologi nostrani, ovvero Umberto Eco, ha dato un contributo fondamentale alla teoria della ricezione con la sua innovativa idea di opera aperta. Secondo Eco, un’opera non possiede un significato univoco e definitivo, ma è concepita per essere decifrata e completata dall’interpretazione attiva del fruitore, che contribuisce alla sua costruzione di senso. Questo approccio rivoluziona l’idea tradizionale dell’arte come veicolo di un messaggio unico e immutabile, spostando l’attenzione dal creatore all’osservatore.
Eco distingue tra le opere “chiuse”, che guidano rigidamente il pubblico verso una comprensione prestabilita, e le opere aperte, che offrono molteplici possibilità di lettura, lasciando spazio all’ambiguità, alla libertà interpretativa e all’interazione. Un esempio tipico di opera aperta è la musica contemporanea di compositori come Luciano Berio o Karlheinz Stockhausen, in cui la struttura musicale invita l’ascoltatore a ricostruire e reinterpretare continuamente il significato. Lo stesso principio si applica anche alle arti visive, alla letteratura e al cinema, dove il coinvolgimento del pubblico diventa parte integrante dell’esperienza estetica.
Un concetto chiave legato all’opera aperta è quello di lettore modello, secondo il quale ogni opera è costruita con una serie di indizi e strategie narrative che orientano il lettore verso determinate interpretazioni, senza tuttavia vincolarlo a un unico significato. Il lettore modello è colui che, attraverso il proprio bagaglio culturale, è in grado di attivare il potenziale dell’opera, riempiendo gli interstizi lasciati intenzionalmente aperti dall’autore.
Negli stessi anni, in Francia il sociologo Pierre Bourdieu affrontava il tema della ricezione da una prospettiva sociale, evidenziando come il gusto artistico e la capacità di interpretazione non siano innati, ma influenzati dal capitale culturale, ovvero dall’educazione, dall’ambiente sociale e dalle dinamiche di potere. Nel suo La distinzione del 1979, Bourdieu dimostra come la fruizione artistica non sia mai un atto neutrale, ma sempre condizionato da appartenenze sociali che determinano ciò che consideriamo bello o degno di attenzione. L’arte, nella sua visione, diventa così uno strumento di distinzione e legittimazione sociale, contribuendo a rafforzare le disuguaglianze culturali.
Di contro, Susan Sontag, negli anni ’60 e ’70, ha offerto una prospettiva radicalmente diversa, opponendosi all’eccesso di interpretazione che, secondo lei, rischiava di soffocare il valore estetico dell’opera. Nel suo celebre saggio Against Interpretation, Sontag sostiene che l’arte dovrebbe essere vissuta nel suo impatto immediato, senza cercare di tradurla in significati razionali o simbolici. Per lei, l’interpretazione finisce per allontanarci dall’esperienza pura e sensoriale dell’opera, riducendola a un oggetto di analisi intellettuale anziché un’esperienza viva. In questo senso, l’eccesso di interpretazione porta a una distorsione dell’esperienza artistica, poiché sposta l’attenzione dal “come” al “cosa”, dal significante al significato, privando l’arte della sua capacità di essere vissuta in modo intuitivo e sensoriale.
Per Sontag, l’arte dovrebbe essere percepita e goduta nella sua materialità, attraverso il corpo e i sensi, senza il bisogno costante di tradurla in concetti verbali. Il significante – ovvero gli elementi formali, estetici e strutturali di un’opera – deve diventare il fulcro della fruizione, permettendo al pubblico di abbandonarsi alla bellezza visiva, sonora o tattile dell’opera stessa.
Questa riflessione trova una risonanza significativa nel pensiero contemporaneo di Byung-Chul Han, in particolare nel suo libro Le non-cose (2021), in cui il filosofo sudcoreano analizza come la nostra epoca, dominata dalla smaterializzazione digitale, stia progressivamente erodendo la nostra capacità di esperire il mondo in modo autentico e tangibile. Han sostiene che viviamo in un’epoca in cui le “cose” – ovvero gli oggetti dotati di presenza, consistenza e significato concreto – vengono sostituite da informazioni, dati e contenuti digitali che non possiedono una vera corporeità. Questo processo di dematerializzazione non riguarda solo la nostra relazione con gli oggetti, ma si estende anche all’arte, che rischia di perdere la sua forza evocativa a favore di un consumo veloce e superficiale.
La smaterializzazione dell’esperienza estetica porta a un impoverimento della percezione, impedendo allo spettatore di entrare in una relazione profonda e significativa con l’opera. Per Han, come per Sontag, è fondamentale recuperare un approccio più corporeo e contemplativo, che restituisca all’arte il suo valore esperienziale, permettendo all’osservatore di “abitare” l’opera anziché limitarsi a consumarla rapidamente.
In questo contesto, l’arte diventa una forma di resistenza alla logica del consumo e della velocità, offrendo uno spazio di riflessione e di presenza nel qui e ora. Il pensiero di Han ci invita a recuperare un’estetica del tangibile e del duraturo, in contrasto con la cultura delle “non-cose”, e a riappropriarci di un tempo di contemplazione in cui il significante possa tornare a essere protagonista, permettendoci di vivere l’arte come esperienza sensoriale autentica, proprio come suggeriva Sontag.
Quindi, perché si è tratta di un’epifania?
Studiare la ricezione artistica è stata per me una vera e propria epifania, perché mi ha permesso di comprendere che l’esperienza estetica non è un atto solitario e immediato, ma un processo complesso in cui diversi fattori interagiscono per dare forma alla nostra percezione. In passato, di fronte a un’opera d’arte, spesso mi sentivo inadeguato, frustrato, come se mi mancassero gli strumenti necessari per apprezzarla davvero. Mi capitava di trovarmi di fronte a capolavori e di provare soltanto disagio, dato che tutto il paratesto espositivo mi obbligava a vedere quell’opera come sicuramente “bellissima”, espressione di un “genio/maestro” al quale dovevo necessariamente subordinare le mie sensazioni e i miei giudizi anche di tipo concettuale. Al contrario, altre volte mi lasciavo trasportare da sensazioni intense ma disordinate, che non riuscivo a decifrare del tutto, entusiasmi improvvisi davanti ad opere che ora riesco a definire “sensuali”. Studiare la ricezione mi ha fatto capire che questa esperienza non era il segno di una mia incapacità, ma piuttosto il risultato di un’interazione tra molteplici elementi: l’opera, il suo contesto espositivo, il mio stato d’animo e il mio background culturale.
Grazie alla teoria della ricezione ho compreso quanto il paratesto espositivo, spesso considerato marginale, sia in realtà un elemento essenziale per facilitare il dialogo tra l’opera e il pubblico, offrendo strumenti che aiutano a superare quel senso di smarrimento iniziale e a trasformare l’esperienza estetica in un momento di reale comprensione e arricchimento personale. Ho imparato che non è necessario essere “esperti” per apprezzare l’arte, ma che avere a disposizione gli strumenti giusti – siano essi un testo critico, un allestimento studiato o semplicemente il tempo di osservare senza fretta – può fare la differenza tra un’esperienza frustrante e un incontro trasformativo.
Nelle prossime puntate cercheremo di capire come creare un paratesto espositivo basato su queste nozioni, dal testo critico fino all’allestimento. Ripeto, questa non vuole essere una guida programmatica alla costruzione di una mostra, quanto piuttosto una serie di appunti sparsi e riflessioni che possono giovare agli esperti del settore quanto agli stessi fruitori